venerdì 10 dicembre 2010

TOSCA, di Giacomo Puccini, Dir. Zubin Mehta, Firenze,Teatro Comunale, dicembre 2010

Sarà che mancano i soldi, sarà qualcos'altro, ma la Tosca vista al Comunale di Firenze lascia molto insoddisfatti. Il 9 dicembre, prima di iniziare, uno sconsolato direttore artistico si affaccia ad aggiornare il bollettino dell'infermeria. Questa volta è Giovanni Meoni, Scarpia, a sentirsi poco bene e ad aver bisogno della benevolenza degli spettatori. Tanto che durante la rappresentazione beve in continuazione (vino?) e alla fine neppure esce a prendersi gli applausi. Eppure è risultato forse il migliore, accanto a una brava ma trasparente Adina Nitescu (Tosca).
Gravemente insufficiente è apparso Misha Didyk nella parte di Cavaradossi: veramente a corto di voce, soprattutto all'inizio.
Le scene sono classiche e non dicono gran che. Solo l'interno della chiesa romana di S. Andrea della Valle, nel primo atto, presenta una cupola messa di tre quarti molto interessante. Per il resto, solo riproduzioni identiche, nessuna novità, nessun colpo di genio, neppure un tentativo.
Zubin Mehta è un grande: talentuoso, leader vero, simpatico e capace di adattarsi, accetta tutto, anche la scarsezza di mezzi e la pochezza degli interpreti, orchestra compresa. Si sa che non è colpa sua e viene da ringraziarlo per questo mettere a repentaglio la sua immagine restando a Firenze a dirigere un Maggio dimesso, ormai ridotto a manifestazione marginale.
Marginale? Sì, e lo si vede da tutto: il teatro Comunale ha i muri di un color giallo sporco, dalle crepe trasuda umido e muffa. Ormai come edificio è abbandonato al suo destino, in vista della imminente demolizione: al suo posto si costruiranno dei condomini, mentre il nuovo teatro dovrebbe sorgere alla Stazione Leopolda, speriamo bene....
Ma il più chiaro testimone di questa decadenza è il pubblico: schiere di ragazzini delle scuole armati di i-phones, turisti stranieri reclutati tramite agenzie on line... per carità, mica vogliamo fare gli snob; ma questo tipo di pubblico la dice lunga sul target attuale del glorioso Maggio Musicale Fiorentino e anche su Firenze come piazza culturale nel terzo millennio. Il sipario, alla fine, si chiude fra applausi standard e largamente inconsapevoli, si chiude su una nuova mediocre puntata di una manifestazione in evidente crisi.

martedì 30 novembre 2010

VIENI VIA CON ME (serie TV con Fabio Fazio e Roberto Saviano, Rai3 2010)

Come sarebbe bello poter parlare bene di Vieni via con me! Lo vorrei sinceramente, e me lo consiglierebbero la formula innovativa, la ricerca di serietà (per certi versi premiata dal risultato), la sobrietà gestita come un valore, la simpatia - tutto sommato - del cerimoniere Fabio Fazio, la voglia finalmente di contrapporre qualcosa di efficace, qualcosa capace di fare ascolti, alla moda delle squinzie di una certa TV mediasettina, ma non solo, completamente disimpegnata (non dirò di destra, quella non è né di qua né di là). Lo attesta perfino uno che non ti aspetteresti mai, come Vittorio Feltri: qualcosa di nuovo c'è, dice, e si vede; che gli altri imparino, per una volta.
Dunque vorrei, ma non posso. La stima e l'apprezzamento iniziali si frantumano via via che la trasmissione va avanti. E' così tutte le volte: si comincia pieni di attese e si finisce per cambiar canale prima della fine, quando ormai l'irritazione ha preso il sopravvento.
E' abile questa cosa degli elenchi: una trovata in sordina che però ha un tocco di stile. Potrebbe fornire l'asciuttezza necessaria a parlare in TV di cose importanti. Potrebbe essere lo stile giusto per ridare fiato a idee e slanci ridotti un po' nell'angolo dall'andazzo generale, per piegare la televisione a temi e sollecitazioni più elevati, per gettare il velo delle veline e provare a andare a fondo.
E invece? Invece prevale la solita retorica. Si chiamano figli di vittime a dire che dei genitori morti mancano loro il sorriso, gli sguardi, e simili cose verissime, per carità, ma che in TV non si possono dire senza scadere in un ammiccante sentimentalismo. D'altra parte è proprio il mezzo espressivo, la TV, che non tollera certe cose. Bisognerebbe dirglielo, farsene una ragione, capire che alla giusta causa, e alla dignità dei figli e delle vittime stesse, la lacrimuccia non porta alcun aiuto. Si mandano i poveri figli innocenti, oppure i protagonisti del volontariato vero, quello silenzioso, allo sbaraglio su un terreno non loro, in un'esibizione circense senza rete alcuna. Che vergogna!
Le liste, poi, da essenziali si fanno sempre più discorsive (don Ciotti docet), perdendo il loro carattere di nobile e sobria testimonianza. E perdendo sempre più di efficacia, senza colpa dei poveretti che le recitano, palesemente impreparati a gestire il mezzo. Gli autori avrebbero dovuto guidarli, spiegare loro quanto possa pagare riuscire a restare calmi nella narrazione delle peggiori avversità, generosi verso gli avversari, obiettivi anche quando ti hanno colpito negli affetti più cari. Avrei voluto che facessero loro rileggere un vecchio libro come Le mie prigioni di Silvio Pellico, ma anche Se questo è un uomo di primo Levi. Dove la ferocia, la crudeltà, l'ingiustizia non sono giudicate ma solo descritte, e il giudizio morale emerge in ogni lettore come una conquista propria, intima, privata, per restarvi durevolmente.
Invece no: perfino una persona serissima come il Procuratore Nazionale Antimafia Grasso rischia di sputtanare la sua ammirevole e coraggiosissima battaglia per la legalità infarcendo la lista di pistolotti, molti dei quali anche politicamente orientati. Chi l'ha aiutato a capire il mezzo televisivo di cui stava servendosi? Chi l'ha guidato? Nessuno, l'hanno lasciato solo in balìa di nove milioni di spettatori.
E Saviano? Un aspirante divo. Peccato, perché alla vanità che lo contraddistingue sono associate, ne sono convinto, anche buone intenzioni. Ma la vanità prevale: dagli occhi che guardano sempre in alto con aria ispirata, alle pause celentanesche, dense di significati, al tipo di inquadratura... tutto, fin dalla scelta di esprimersi in forma di "sermone", è finalizzato alla creazione di una star. Anzi di un sacerdote, di una vestale. La quale sciorina dati non sempre veri, spaccia qua e là opinioni per dati di fatto, prestando il fianco a critiche da chi non aspettava altro.
Ma il problema peggiore, che non è solo di Saviano ma di tutta la trasmissione, è un altro. Qualcuno mi dica se ha ascoltato una proposta, anche una sola, su "che fare". No, ci si crogiola snocciolando le brutture, elencando i disastri, additando responsabilità e colpe, quasi lucrando sulle malefatte, sulle disgrazie (con aria, me ne scuseranno, perfino vagamente iettatoria), ma non una parola su che cosa loro avrebbero fatto o propongono di fare. Beh, un po' comodo, anche perché allora l'obiettivo da raggiungere non sembra più tanto la soluzione dei problemi, quanto piuttosto l'alto gradimento, lo share, come si dice, e la fama. Ahimè, anche loro!
Ma sì, l'idea di fondo c'è ed è giustissima, ovvero che la mafia non si batte con (o solo con) la polizia e i giudici, ma piuttosto con la diffusione dell'impegno personale e della cultura della legalità. Giustissimo, ma come fare? A trasmissione conclusa, non ne abbiamo ancora idea.

domenica 21 novembre 2010

Devil (film), di Drew e John EricK Dowdle, USA 2010

Le circostanze e il luogo in cui si assiste ad uno spettacolo non dovrebbero influenzare il giudizio critico sull'opera; tuttavia non posso tacere l'impressione prodotta su di me dal "multisala" di estrema periferia in cui Devil era programmato nella mia città. Un non-luogo di tale squallore da far stringere il cuore; una sala grande, dallo schermo gigante, ma così cupa da allarmare prima ancora dell'inizio del film horror; un odore di pop-corn talmente intenso da risultare disgustoso anche a un appassionato; ragazzotti tutti uguali e vestiti uguali (jeans e piumino), tutti palesemente depressi al di là degli atteggiamenti forzatamente allegri... Può darsi dunque che un po' dell'impressione negativa sul film sia dovuta all'ambiente circostante e non propriamente alla pellicola.
La quale è stata realizzata con un budget modesto, e dunque presenta un cast non di primissimo piano, ma non manca di pregi. A cominciare dalle prime inquadrature di una metropoli americana vista da sotto in su. Inquadrature bellissime.
La storia è intrigante: 5 persone si trovano bloccate nell'ascensore di un grattacielo. Sono persone molto diverse fra loro, ma più avanti si scoprirà che sono accomunate da un particolare non da poco: sono infatti tutte, a vario titolo, macchiate dal peccato. E fra di loro si annida nientemeno che il diavolo. Il problema è che non si sa chi dei cinque lo sia: non lo sappiamo noi spettatori ma soprattutto non lo sanno loro, che infatti, via via che il contrattempo diventa un dramma, iniziano a sospettarsi a vicenda, a minacciarsi, a combattersi, e infine a morire, uno dopo l'altro. Già, perché il diavolo è venuto a prendersi le sue vittime: prima ci gioca come il gatto col topo, e infine le fa sue senza scampo.
L'orrore corre sul cavo dell'ascensore, alligna come un sesto personaggio nella cabina bloccata. La morte si annuncia con il tremolare delle luci, col buio entro il quale il diavolo ha agio di colpire indisturbato. A nulla valgono gli sforzi umani, i cellulari accesi a tentare di contrastare l'abisso del buio: tutto inutile, tutto vano.
All'esterno, un poliziotto dalla vita tragicamente colpita dalla sorte tenta di intervenire, di dirigere i poveri malcapitati tramite una telecamera e un microfono, ma la fatalità diabolica finirà per farlo ritrovare a tu per tu con la tragedia che lo ha segnato in passato.
I mezzi utilizzati per far salire la tensione non sono proprio eccezionali né originali: spesso sanno di espediente e non fanno sobbalzare più di tanto. Il phil rouge che tiene insieme la storia è il racconto che la mamma faceva ad una delle guardie giurate del grattacielo, un ispanico molto superstizioso, quando era bambino: dalla voce atterrita di questi, e dai suoi ricordi, comprendiamo, nell'incredulità degli altri personaggi, che siamo in presenza del diavolo, e ci giungono premonizioni su quanto sta per accadere nell'ascensore: un filo assai tenue, perfino ridicolo.
Eppure non riesco a demolire tutto. In particolare, il finale costituisce una sorpresa: certo anche per il ribaltamento della situazione, che fa scoprire il diavolo dove meno te lo aspetteresti e costituisce il coup de theatre tipico di un thriller. Ma soprattutto perché esibisce dei valori positivi, capaci di risparmiare la vita all'ultimo dei personaggi, di negare la soddisfazione finale al diavolo e di ristabilire sulla terra degli uomini un certo equilibrio di bontà. Sono valori come il pentimento, il perdono e perfino la confessione. Non sappiamo se gli autori siano o meno di fede cattolica, ma nel film si afferma in modo inequivoco il valore della dichiarazione-confessione del male commesso come forma di espiazione e lavacro. E funziona, salvando dalla dannazione! Nulla di più lontano dal mondo luterano/protestante.
Di più non si può pretendere da un horror destinato a una platea di ragazzotti, accorsi al cinema con veri e propri barili di pop-corn, incapaci di inorridire davanti allo squallore del luogo dove la nostra barbarie li costringe a bivaccare, bisognosi, per provare emozioni, di stimoli forti ma appena appena elementari.

sabato 13 novembre 2010

Uomini di Dio, film di Xavier Beauvois (Francia 2010)

O Musa degli Stroncatori, aiutami! Guidami le dita sulla tastiera, indirizza il mouse sul tappetino, affinché io possa parlar male di Uomini di Dio. Perché non è facile porsi contro questo film maturo, per certi versi profondo, e per di più politically correct.
Che cosa dunque non va in Uomini di Dio? Direi il tema. Gli autori infatti trattano temi sui quali fare film, per quanto volenterosamente, o con grandi risorse intellettuali, morali o tecniche, è impossibile. Primo fra tutti, l'eroismo Non è un tema su cui fare un film introspettivo o di testimonianza morale. Ci si possono fare western, quanti Rambo volete, perfino film di guerra a volontà, ma a patto che sulla verità prevalga la fiction. Al contrario, se il film vuol rendere con verosimiglianza e adesione psicologica una vicenda umana, e questa è stata un autentico atto di eroismo, essa rimarrà sempre irraggiungibile e il film risulterà sempre inadeguato.
La storia vera, in questo caso, è quella di un manipolo di fraticelli in terra islamica, benvoluti e rispettati da tutti nel vicino villaggio, che vengono prima minacciati, poi presi in ostaggio e infine trucidati da un commando di terroristi sedicenti islamici, piovuti quasi da un altro pianeta sul pacifico territorio del monastero. E' la tesi dell'estremismo islamista che nulla ha a che fare né con la pacifica religione della gente né con il Corano, che invece predicherebbe la fratellanza. Si potrà essere più o meno d'accordo con questa visione - forse un pelino buonista - ma il fatto è che la sua traduzione cinematografica è comunque abbastanza ingenua e dunque insoddisfacente. Peggio, direi: è paternalistica, perché nel film i frati curano, comprendono, perfino ammirano, benedicono e accettano benedizioni ma sempre da una condizione di forza, da un gradino di altezza dove li pongono la religione cattolica, l'essere europei, la civiltà di cui sono portatori. Ce li pone tutto, su questo invisibile piedistallo: perfino la rinuncia, la povertà, quello cioè che dovrebbe tirarli in basso: la rinuncia infatti, come dice a un certo punto un frate, per un credente è il veicolo dell'elevazione. Nella realtà è giusto che sia così, ci mancherebbe: la forza della fede è la forza di chi sa di essere nel giusto e non teme di dichiararlo, neppure a costo della vita; ma nel film questo pregiudizio di superiorità diventa quasi un fastidio, se non un autogol. Alla festa di "para-battesimo", un predicatore maomettano dice che Dio si serve di messaggeri vari, non importa di che tipo. Quanto più limpido finisce per apparire questo tipo di tolleranza, rispetto alla tolleranza ideologica dei frati!
E siamo al secondo argomento impossibile: la fede religiosa. Mettere in scena la devozione, la santità, in ultima analisi anche in questo caso l'eroismo dell'uomo-pulce davanti a Dio è impresa titanica, che neppure ottimi registi riescono a far quadrare. Agiografia e retorica sono i principali rischi in agguato; e per quanto il regista abbia dichiarato che i suoi sforzi sono stati indirizzati a evitare iperboli e superlativi, tutto il film risulta in sospetto di celebrazione. Si ha spesso l'impressione di intravedere lo sforzo nel rendere sentimenti troppo elevati, troppo distanti da noi poveri uomini normali: sforzo recitativo degli attori, sforzo creativo di autori e regista; e così l'illusione si sfalda e dal muro del monastero, sullo schermo, qua e là trapela quel che c'è dietro davvero: il set di una produzione cinematografica.
Il film indaga non tanto sulla tragica conclusione della vicenda, quanto sull'attesa della catastrofe: entra nei cuori dei frati sondandone il coraggio, le paure, la dinamica (per la verità non chiarissima) dalla iniziale voglia di fuga di alcuni fino alla decisione unanime di restare, di dare testimonianza fino alla morte, quando essa appare ormai quasi certa. Mette in luce certo le debolezze di alcuni ma soprattutto la bontà di tutti, la buona fede, e infine l'assoluta dedizione e devozione alla causa e a Dio, perfino la capacità, che è propria solo dei grandi, di sciogliere il cuore al capo dei terroristi e di commuoversi alla sua sordida fine.
A proposito, quel capo terrorista che prima passa per le armi senza tanti complimenti tutti gli occidentali che incontra, che è dichiarato dalla stessa popolazione locale come un alieno con il Corano a fargli da lugubre foglia di fico, ma poi si arresta sulla soglia del monastero, discetta di fede e dialogo interreligioso col padre superiore, con lui recita i versetti coranici e finisce per andarsene coi suoi senza bottino, è quanto di più inverosimile - e meno chiaro nel film - si possa immaginare.
Ma c'è dell'altro: vorrei proprio sapere chi è l'autore dei versetti cantati dai frati nelle loro litanìe: magari mi sbaglio ma mentre le note sono di tipo gregoriano, ovvero austere e cariche di echi medievali, i testi mi sembrano ammiccanti, lirici forse qua e là ma non certo liturgici, anzi quasi ridicoli nella loro ampollosità.
Nel complesso il film è ben fatto, ben costruito, ben recitato, non dico di no; e mi riferisco soprattutto al casting, capace di rintracciare tipi estremi quasi da vangelo pasoliniano, o addirittura caricature pseudoleonardesche (tranne il padre priore, il cui volto accattivante sembra una concessione alle esigenze di un vasto pubblico). Lo ripeto: non si tratta di un film da buttare ma la santità, l'eroismo, la fede erano con ogni probabilità nella vicenda reale, non abitano qui.

sabato 23 ottobre 2010

Mammuth (film) di Benoît Delépine e Gustav Kervern (Francia 2010)

Girano paroloni all'anteprima nazionale di Mammuth. "Capolavoro" è la più prudente. In sala è presente il 50% dei registi, non chiedetemi quale dei due, ma come stazza basta per entrambi: è un omone barbuto che deve avere imparato la lezione di Benigni alla consegna dell'Oscar perché salta, si inchina, spalanca le manone, abbraccia platealmente gli astanti, sbaciucchia tutti, dalla timida interprete al presentatore al critico del Messaggero. Non è chiaro se sia simpatico davvero o reciti la parte, se sia sul serio ubriaco - come lui stesso suggerisce - o faccia finta; comunque la verve innata del nostro Benigni rimane lontana.
Ma la stazza del regista non è nulla rispetto a quella di Depardieu il quale peraltro, puntualizzano più volte dal palco, ha recitato gratis per amore della sceneggiatura. Il che risulta ben più un'autocelebrazione che un omaggio. Anzi, scherzano poi non più tanto cortesemente, questa è la prima e l'ultima volta che non lo vedete recitare per soldi...
Comunque Depardieu ce la mette tutta: la bravura e anche la panza, che viene spiattellata nella sua intera sgradevolezza, in linea con una scelta di esibizionismo del disgustoso che contraddistingue tutto il film. Perfino la splendida Isabelle Adjani viene utilizzata come fantasma di una fidanzata morta in gioventù, col volto rovinato da cicatrici e tumefazioni. Nulla ci viene risparmiato: I protagonisti sono tutti attoniti di fronte a una vita totalmente vuota e inutile: Gerard conosce la moglie, cassiera di un supermercato, perché sta comprando un coltello "per farla finita"; alla festa di pensionamento i colleghi se ne sbattono altamente di lui e masticano rumorose patatine, mentre un caposquadra legge distrattamente un foglietto con frasi di circostanza... e così via in una voluttà del repellente che smorza ogni vis comica, pur dichiarata e visibile. Già, perché in sala "si riderà e si piangerà", avvisa il regista prima dell'inizio.
Ma di che cosa dovremmo ridere? Qualcuno lo fa rumorosamente alla scena di reciproca masturbazione fra due vecchi. Mah...
E di che cosa dovremmo piangere? Forse alle apparizioni del fantasma Adjani? Troppo episodiche, troppo algide, troppo scollegate fra loro: non c'è un contesto che le renda commoventi, rimane soltanto un senso di oppressione.
La storia: Depardieu va in pensione da macellaio e l'INPS francese gli chiede delle carte relative a precedenti impieghi. E lui parte con una moto degli anni settanta, la Mammuth appunto, per un viaggio alla riconquista delle carte ma anche del suo traballante passato. L'idea è carina, ma i registi la trasformano in una serie di sketchs uno staccato dall'altro, dove attori più o meno estrosi cercano di dar prova di bravura di fronte allo sguardo che si direbbe quasi paziente di Depardieu. Un disastro. E la Mammuth, che secondo il critico del Messaggero farà "godere come maiali" i cultori delle moto vintage, non ha rilievo simbolico di alcun genere, e alla fine viene pure venduta.
Tra i film francesi che ho visto questo è il più "italiano", quello in cui è più evidente la medesima decadenza da una commedia arguta, oppure realistica, oppure onirica ma sempre ben concertata, a una sequela di scenette improbabili dove, fra l'altro, il grande assente è il dialogo. Anche i francesi insomma, mutatis mutandis, si sono pieraccionizzati. E per questa via, dalla lingua al dialetto e da questo ai gestacci ed ai rutti, finiremo a film fatti solo di grugniti. Che peccato.
Viene allora da rimpiangere Zavattini e gli altri che facevano storie con un inizio, uno svolgimento e una fine, magari non eccelse ma sempre intriganti. Dove sono gli sceneggiatori oggi? Ci aggrappavamo ancora ai francesi dei vari Giù al nord eccetera; speriamo che non si siano ridotti al livello di questi.

venerdì 22 ottobre 2010

Quella sera dorata (film), regia di James Ivory, UK 2010

La prima cosa che ci si chiede andando al cinema è perché mai l'importatore italiano abbia sentito il bisogno di modificare il buon titolo originale, The City Of Your Final Destination nell'orrendo Quella sera dorata. Con tutti i film che mantengono il titolo inglese, ce n'era proprio bisogno?.
Il caso ha voluto che avessi letto il romanzo di Peter Cameron da cui il film è tratto. Ho potuto così valutare le differenze, inevitabili, e a volte apprezzabili, che distinguono l'opera cinematografica dal suo archetipo cartaceo. E quali sono queste differenze? Nessuna, sarei tentato di dire; il che però equivale a dire che il valore aggiunto del film rispetto al libro è pari a zero.
Il romanzo, pur non straordinario, aveva una trama molto intrigante: un dottorando americano deve scrivere la biografia di un osannato scrittore morto da poco, autore peraltro di un solo libro. Da vecchio, questi si era rifugiato in Uruguay, dove viveva in una hacienda sperdutissima in compagnia della moglie e dell'amante. Le due donne vivono ancora assieme, fra ovvie gelosie e inspiegabili legami, mentre nella fattoria accanto vive il vecchio fratello gay dello scrittore con il giovane e adorante compagno. L'autorizzazione alla biografia viene negata e così il dottorando, sfuggendo anche a una fidanzata prevaricatrice e parecchio arpìa, vola in Uruguay e si insedia in villa.
In effetti il regista segue il canovaccio molto fedelmente, quasi troppo. Però alcune differenze ci sono, tutte in negativo. Non viene restituita in immagini l'efficace ragnatela di rapporti che si instaura con l'arrivo del dottorando, quel suo pendolante trattare con l'uno e con l'altro, l'alternarsi di risposte affermative che diventano negative e negative che diventano sì. Era uno dei punti di forza del libro; nel film è tutto semplificato, e non solo per ragioni di tempo: le posizioni dei personaggi sono più statiche e la vicenda si avvia al suo finale in modo più lineare e dunque più banale.
Va poi citato un episodio particolare. Il vecchio scrittore si era portato fino in Uruguay una gondola veneziana e l'aveva parcheggiata in una capanna in riva a un lago, a qualche chilometro da casa. La gondola, quasi marcita nel suo buio rifugio, nel libro è una presenza simbolica, anzi magica, capace di sciogliere l'amore fra il protagonista e una delle donne. Nel film invece ha rilievo modesto e la gita dei due giovani al lago appare non più un'ascesa carica di significati ma un mero passaggio narrativo.
Ivory è un panificatore di dolciumi, un confezionatore di film caramellati. Non una sbavatura, non una caduta di stile. Anche troppo: si avrebbe quasi voglia che un attore sbattesse a un tratto contro una quinta di tela, come in The Truman Show; ma Ivory tira dritto senza incertezze di sorta fra tramonti screziati e facce di indiscutibile espressività (ricordiamo l'efficace interpretazione di Anthony Hopkins!).
A me Ivory non piaceva sin dai tempi di Camera con vista, realizzato in una Firenze che più turistica e di maniera non si sarebbe potuto. E quei dubbi mi si sono rafforzati oggi con questo film perfetto ma superficiale, senza spessore, incapace di cogliere la complessità delle vicende e la profondità dei caratteri.

domenica 19 settembre 2010

PUBBLICITA': QUALCOSA CHE NON SOPPORTO

La pubblicità è di per sé noiosa, ovunque si trovi: in radio, in televisione, su internet come nei giornali o nei cartelloni stradali. Ma certi professionisti si sforzano per renderla ancor più insopportabile. Vi sono espressioni usate ed abusate le quali, piuttosto che intrigare o convincere, fanno solo innervosire, o al massimo non dicono più nulla.
Ognuno avrà una propria lista di esempi irritanti. Provo qui a proporre la mia:

"TUA"
Nelle pubblicità di automobili, ma non solo: "Tua da diecimila euro in su...". Sostituisce espressioni più lunghe, tipo "la puoi avere con... ecc.", e dunque forse ha un suo perché, ma dà un grande fastidio...

"SCOPRI"
In tutti i tipi di pubblicità, e specie come rimando a siti internet: "Scopri tutti i meravigliosi modelli..." e simili. Non potrebbero dire cerca, oppure guarda o leggi, o che so io? No, fateci caso: dicono tutti scopri. Boh?

"VANTAGGI"
Nella pubblicità soprattutto automobilistica non si parla più di sconti ma di vantaggi. Si tende cioè a non abbassare il prezzo ma se mai a gonfiare il prodotto a prezzo invariato. La ragione è presto detta: mille euro di sconto sarebbero mille euro in meno per il venditore; invece, mille euro di vantaggi (merce in più) sono costati al venditore magari la metà, o ancor meno. Un bel vantaggio (per il venditore!) ...

"GRATIS 50% DI PRODOTTO IN PIU'"
nella pubblicità di shampoo, detersivi e simili. Questa non l'ha notata proprio nessuno, che io sappia. Proviamo a fare un conto: se per comprare un litro di prodotto spendevo 10 euro, con la formula "gratis 50% in più" ce ne compro un litro e mezzo, che a prezzo intero avrei pagato 15 euro. Qual è lo sconto per passare da 15 a 10 euro? Ma è il 33,3%. Vuoi mettere, però: scrivere "50% gratis" sembra ben di più, è molto più allettante che scrivere "sconto 33%".
Ovviamente, non possono scrivere "gratis 50%" e basta, altrimenti sarebbe appunto uno sconto 50%; però quel "di prodotto in più" è spesso scritto piccin piccino, e comunque quanti sono così attenti da capire la differenza? E' un po' la stessa cosa dei vantaggi: invece di farti uno sconto ti vendono più merce, ovvero ti fanno uno sconto in natura; però qui c'è quasi un raggiro verso i consumatori e stupisce che nessuna delle loro associazioni, spesso pronte ad insorgere per battaglie perse in partenza o non meritevoli, non abbia ancora avuto nulla da ridire.

mercoledì 14 luglio 2010

OBIKA' (Mozzarella Bar), 2010

Ho provato questa catena di ristoranti di mozzarella prima a Firenze, poi a Milano e infine a Roma, ma il risultato non cambia: la mozzarella è irrimediabilmente avvizzita. Mica avariata, ci mancherebbe, ma avvizzita di certo. Le volte successive ero rassegnato, ma la prima ho provato a ribellarmi: giù le mani dal mito della mozzarella - uno dei pochi veri, semplici ma esclusivi miti della gastronomia attuale. E' come se un club per soli uomini, che si chiamasse, che so, "Curve femminili" facesse fare lo strip-tease a delle nonnette... Se scommetti tutto sulla mozzarella, ebbene la qualità dovrebbe essere indiscutibile. E invece è come la nonnetta di prima: sarà pure stata buona, in gioventù, ma adesso ha perso elasticità e vigore, giace nel piatto senza alcun turgore.
E ora sentite questa: io di solito non faccio scene, mi limito a non tornare più dove mi sono trovato male; alla cameriera di Firenze, che in modo insistente voleva estorcermi un complimento per la sua mozzarella, alla fine l'ho detto: mi spiace, era pure buona ma fresca no di certo. E lei che mi risponde? Che è stupita perché, pensi un po', in quel locale le mozzarelle vengono tenute appena tre giorni, dopo di che... (io immaginavo: si buttano via) e invece: dopo di che si usano solo per il sugo della pasta.
Ho troncato lì, ero troppo triste. La vera mozzarella di bufala al terzo giorno è certamente commestibile, ma non sa più di nulla, figuriamoci dopo. Ho capito: Obikà sta alla "mozzarella di bufala campana dop" come Pizza Hut sta al pizzaiuolo napoletano. Sempre la stessa roba, ma io preferisco la pizza verace.

Affetti e dispetti (La nana), di Sebastian Silva, Cile 2010

Sarà che sono rammollito, ma non me la sento di stroncare questo Affetti e dispetti.
Il titolo italiano serve ad evitare l'equivoco che si sarebbe creato da noi col titolo originale: La Nana, infatti, in spagnolo significa qualcosa come "la tata".
Raquel è la domestica full time di una famiglia benestante minata da una serie di carenze: il padre è un deficiente integrale che, spesso di nascosto dalla moglie, si divide fra golf e modellismo, incapace di fare altro; un figlio pare che abbia il vizio dell'onanismo (o sarà un'invenzione della cameriera?). I bambini, carini per carità, starnazzano in continuazione e smuovono gli oggetti per la casa, che poi Raquel deve ripetutamente rimettere a posto.
La vita di Raquel, che è entrata in casa ragazzina e adesso si ritrova quasi vecchia, scorre a ritmi incalzanti, quelli necessari affinché i ritmi dei familiari siano invece ben più che rilassati. Colazioni a letto, bambini da instradare a scuola, letti da rifare, bagni da pulire, pranzi e cene da preparare e servire... Il mal di testa incalza Raquel, rende necessaria l'assunzione di pillole in quantità industriale. Finché tutto crolla e crolla Raquel stessa, rotolando svenuta dalle scale. Al secondo svenimento la premurosa ma algida padrona di casa decide di assumere una seconda cameriera. Raquel, che sente in bilico il proprio ruolo, quel suo sentirsi parte della famiglia che per lei è tutto, frigge dalla gelosia e alla malcapitata riserva un trattamento tale da convincerla a darsela subito a gambe: la chiude fuori di casa, pulisce il bagno con l'ammoniaca ogni volta che quella ci entra, la critica aspramente per mancanze inesistenti...
La cosa si ripete per ben due volte. I dispetti varcano il limite della paranoia e la salute di Raquel non migliora. Quand'ecco, alla porta appare Lucia, tutt'altra pasta. Con un ribaltamento non del tutto spiegato né del tutto verosimile, Lucia fa breccia rapidamente nel cuore di Raquel, ne diventa amica, la porta a casa propria per Natale, le fa persino provare, pur in modo parziale, tragicomico e subito bloccato, il sesso con uno zio.
La vita è avara: Lucia deve andarsene, ma il tesoro di umanità che ha elargito non è fugace e Raquel è pronta per una nuova fase dell'esistenza.
Nonostante che il film si attardi un po' troppo sulla fase dei "dispetti", che poteva essere più sfumata, la storia funziona abbastanza. I protagonisti recitano benissimo (Catalina Saavedra è stata premiata a Torino per la sua interpretazione di Raquel) e non c'è niente da dire. Aleggia un po' tuttavia la sensazione di un film dalle belle promesse non mantenute. Di un'occasione mancata, per come il coltello avrebbe potuto essere affondato e invece ha soltanto lasciato dei graffi. Si esce dal cinema, insomma, con l'aria di chi sa che farà presto fatica a ricordarsi la storia.
Onore comunque a un regista bravo nella scelta delle facce, attento ai dettagli (Lucia che arriva in famiglia per lunghi minuti non viene inquadrata direttamente, come se noi la percepissimo con i sensi di Raquel). Ne avessimo così, da queste parti!

mercoledì 30 giugno 2010

NOTTI MONDIALI (la Rai in Sudafrica, 2010)

RAIUNO TRASMETTE DAL SATELLITE
Raiuno è sbarcata sul satellite (ma i suoi giornalisti non se ne sono ancora accorti). Questo dev'essere successo alla scombinata combriccola che ci rovina ogni sera il piacere del campionato del mondo di calcio. Trasmettono da qualche satellite di Marte, inconsapevoli e indifferenti a un mondo piccino e distante. La loro astronave fatta di palcoscenico, telecamere, ospiti, quinte teatrali, macchinari, moviole touch screen, si è persa per la tangente e vaga in un iperuranio da dove nulla e nessuno può distrarli o richiamarli alla realtà.
La nave va, l'orchestra prova, nessun gong irrompe fellinianamente sulla scena. E loro ci credono, credono fermamente che ciò che li occupa sia una priorità degli italiani.
Invece, gli italiani vorrebbero vedere calcio, azioni, quelle piccole grandi meravigliose invenzioni dei campioni; e i gol!... Ma il calcio è proprio il grande assente su Rai Uno.
Vabbe', l'Italia è stata eliminata. Giusto l'occasione per prendersela con tutti, dall'allenatore incapace (ma io l'avevo detto...) all'ultimo dei massaggiatori, e poi via di nuovo con lo sghignazzo autoreferenziale. In fondo che cosa c'entra l'Italia, il campionato, tutta quella gente negli stadi? L'importante è avere tempo per aggiungere l'ultima freddura, imbeccare il sedicente opinionista, permettere a Costanzo di sputacchiare sentenze incomprensibili e a Galeazzi di esibire la panza.
Poi irrompe il moviolista cotonato in servizio permanente effettivo, quello che sul gol da antologia trova il peluzzo, il difetto che non avevamo notato, il dito mignolo in millimetrico fuorigioco. Et voilà: se avevamo un mito, eccolo sputtanato. Ma non è tutto: funzione precipua della moviola è lo sbugiardamento degli arbitri. Grazie a questi professorini possiamo prendercela anche con loro, incapaci per definizione e forse in malafede, e più ancora con quel malefico Blatter colpevole, ahilui, di non genuflettersi al potere forte della tecnologia. E poi, sai che gusto distruggere l'ingenua convinzione che abbia vinto il migliore. Ma no, no! Non con merito proprio ma per intollerabile ingiustizia la tale squadra ha prevalso. L'altra, quella eliminata, era la meglio del baraccone! E allora proviamo a stilare una classifica al netto delle sviste, delle distrazioni, dei mignoli in fuorigioco. Un test eccitante, anzi facciamo un bel sondaggio! E qui poi regnano le "statistiche", che spesso nel lessico pseudotecnico dei giornalisti rai sta a significare dati storici, altro che statistici; ma che importa?
Le ore passano, del calcio neppure l'ombra... La lucida pelata di un conduttore irrigidito come un palo ricorda troppo da vicino l'erezione di una testa di c...; ci si collega in alternanza con Roma (però piazza di Siena, mica via Asiago), Johannesburg, Città del Capo... prima c'era anche Casa Azzurri (che nome originale!). Il tutto con larghezza di mezzi tecnici e sfoggio di gente dura: uno spaesato Mazzola, un Collovati voglioso di stimolare la polemica, una squinzia di cui non chiedetemi il nome...
Ma ci pensate al costo di tutto ciò? E poi dice che non trasmettono Spagna Portogallo, o qualche altra partita gioiello, per non spendere??? Che vantaggio c'è a far studio da Johannesburg (con seguito di grand hotel, ristoranti, e quant'altro), quando si poteva far lo stesso da via Asiago in Roma con gli scenari e lo staff già pronti?
Ma dimenticavo: non è giornalismo, è format. Vuoi mettere. Se trasmettessero solo i filmati delle azioni, commentandoli, sarebbe volgare giornalismo. Invece, col format qualche presunto anchorman può incassare ricchi diritti d'autore, alla faccia del contribuente italiano.
Ma l'Italia è lontana, e godiamoci l'happy hour sudafricano senza ombra di nostalgia; ma che dico, senza un refolo di dignità. Quella è caduta dalla tolda del Titanic televisivo, si è persa nello spazio siderale.

domenica 20 giugno 2010

LA NOSTRA VITA, di Daniele Luchetti, 2010

Non tutti i film italiani sono brutti; ma tutti - o quasi - devono pescare le loro storie in situazioni di disagio, ambienti degradati, periferie sconsolanti, problematiche di emarginazione o di diversità... Perché? D'accordo, l'Italia è anche questo; e una volta forse raccontare il brutto, lo sporco e il cattivo era un merito: implicava un difficile andar contro corrente. Ma siamo sicuri che, con l'andare degli anni, non sia diventato anche troppo comodo? Raccontare storie tristi o squallide sembra oggi molto più facile: sollecita coperture politiche forti, solletica il senso di colpa di certi ambienti che contano; ed inoltre, il degrado, l'ambiente sottoproletario, giustificano appieno il comodo ricorso a certi slangs dialettali romaneschi che non necessitano di scuola di dizione, né tantomeno di accademia di teatro. Mentre se devi costruire una commedia, magari di ordinaria borghesia, devi mettere in campo risorse interpretative che non tutti gli attori italiani possiedono. E poi il dolore paga più della felicità, al cinema come in letteratura. Vuoi mettere.
E così, ecco l'ennesimo filmetto italiano dal budget striminzito. L'ambientazione? Una banlieu che stringerebbe il cuore a un redivivo Pasolini. Il mare? Una terrazzetta su una spiaggia vuota. I protagonisti? Gente che vive nel ristretto orizzonte che gli è capitato, mai la testa fuori. I soldi? Sempre mancanti, fra cravattari e bustarelle. Le tasse? Mai pagate da nessuno, fare nero è un vanto. Il lavoro? Va sempre male, si fanno case che sono dei colabrodi. Il clima? Piove quasi sempre, e non sulla favola bella, ma sullo scalcinato impiantito di un cantiere fatiscente. La storia? Lui e lei sono felici, due bambini e un terzo in arrivo; si amano teneramente e fisicamente nonostante il pancione (ah, che banalità le trovate per ritagliarsi intimità lasciando i figlioletti fuori della porta!); ma poi lei muore di parto. Un dolore atroce per lui, che però cerca il riscatto sul lavoro. Vuol garantire ai figli un futuro migliore, e dunque rischia grosso: prende un subappalto, ci mette tutto quel che ha e quel che un vice-cravattaro buono (l'irriconoscibile Luca Zingaretti) gli fa avere. Ma le cose non sono mai facili: il lavoro va a rilento, i soldi vanno restituiti, a Zingaretti sfasciano la casa... Bisogna ricorrere ai familiari, che in uno slancio di generosità donano tutto, anche le sterline d'oro della mamma morta (ma com'è forte la solidarietà, fra poveri per bene!). Non basta, non basta! La casa in costruzione sta per crollare, gli operai senza stipendio si ammutinano, il disastro è vicino. Per di più lui è costretto a confessare a un grassoccio ragazzo rumeno di aver taciuto sulla morte di suo padre in cantiere.
Ma poi, un deus ex machina irrompe sulla scena sotto forma di una ditta di Frosinone, pensa un po', che in tre giorni finisce il lavoro garantendo al protagonista, e agli spettatori saturi di disgrazie, un lieto fine appiccicaticcio.
Modeste vicende di un mondo ai margini. Ma perché continuare a lavorarci attorno, intendendo conferirgli (ma senza riuscirvi quasi mai) una dignità artistica? E a proposito di arte, non è infrequente nella cinematografia anche straniera adottare una canzone come leit-motiv della storia. Ma si può fare in tanti modi. Il peggiore è quello scelto da Luchetti: presumere che siamo tutti stregati da Vasco Rossi, trattare una sua modesta canzonetta come se fosse un mito super partes, pensare che basti da sé a commuovere tutti noi spettatori (non solo il protagonista). E così farla cantare a squarciagola agli attori perfino come ode funebre durante il funerale della sposa. Peccato che la canzone non sia un capolavoro. Luchetti evidentemente adora Vasco Rossi ma non si accorge che la sua è appena un'opinione, ben altri sono i miti in grado di reggere un ruolo come quello che lui vorrebbe attribuirgli. Ricordate la poesia funebre letta durante Quattro matrimoni e un funerale? Fermate gli orologi, tagliate i fili del telefono e regalate un osso al cane, affinché non abbai. Faccia silenzio il pianoforte, tacciano i risonanti tamburi, che avanzi la bara, che vengano gli amici dolenti. Lasciate che gli aerei volteggino nel cielo e scrivano l'odioso messaggio: lui è morto. Guarnite di crespo il collo bianco dei piccioni e fate che il vigile urbano indossi lunghi guanti neri.... (ecc.) Quella sì...; ma non era Vasco Rossi, era Wystan Auden!
Si è poi premiata la bravura del protagonista, si è apprezzata in generale quella di tutti gli attori, e in effetti c'è del buono; ma sempre in un ambito di spontaneità espressiva, come prima dicevo, che trae linfa dal vissuto, non certo da scuola e applicazione.
Finché il cinema italiano resterà così naif e ideologicamente orientato, mai sarà in grado di competere.

sabato 12 giugno 2010

COPIA CONFORME. di Abbas Kiarostami, 2010

Kiarostami non è un regista qualsiasi. Segue un filo conduttore, svolge un tema che gli sta a cuore e che torna protagonista anche ad anni di distanza. Questo tema è il rapporto fra vero e falso, fra originale e copia.
In quest'ultima prova, Copia conforme, l'indagine lascia ogni altro terreno, compreso quello della truffa (Close-up), e si cala direttamente nel nocciolo della questione vero/falso: quello dell'arte. Un critico d'arte e un'antiquaria ne discutono: che cos'è un originale? Forse la Gioconda? O non è anch'essa una copia, mentre originale era solo la Monna Lisa in carne ed ossa? Ma allora, in che cosa è da preferirsi l'opera di Leonardo rispetto alle copie realizzate in seguito? I protagonisti mostrano di non saperlo, o per lo meno esibiscono, verso il falso, una pensosa indulgenza.
La questione vero/falso finisce per coinvolgere anche le relazioni personali fra i protagonisti: lui e lei si sono incontrati più o meno casualmente; parlano, si gettano ami... sembra un normale imbrocco; ma poi lei riferisce a una barista che sono sposati da quindici anni, e qui le cose si complicano: sta raccontando una balla? Oppure è vero? I due non parlano più amabilmente; discutono, litigano, come coniugi sull'orlo della separazione si accusano reciprocamente di incomprensione e insensibilità; la storia del loro preteso matrimonio sembra inverarsi sempre più, finché si ritrovano in una stanza d'albergo "come ai vecchi tempi", ma non si capisce se sia la prima volta o l'ultima di una serie. Lei gli sollecita il ricordo di un passato forse vero o forse solo inventato, per gioco o per chissà che altro; e la smemoratezza di lui può essere, a scelta, frutto di oblio o di semplice insussistenza dell'oggetto. E invece che calarsi nel letto da cui lei lo invoca, lui infine si chiude nel bagno, e un interminabile sgocciolio dichiara che sta impietosamente urinando. Sfinimento dopo quindici anni di matrimonio, o esitazione di fronte alle estreme conseguenze di una recita non più tanto intrigante? Un bel rebus, anche perché il regista ci porta fuori strada con indizi non tutti compatibili (come sarebbe in un buon giallo) con entrambe le soluzioni. E di certo lo fa volutamente, come a dire che nella vita, e forse anche nell'arte, vero e falso non si elidono a vicenda ma si compenetrano sopravvivendo l'uno all'altro in un quadro di ineliminabile, e creativamente feconda, contraddizione.
Tutto giusto, tutto interessante. Ma qui va messo un punto. Anzi molti puntini sugli "i".
Per prima cosa, il tema vero/falso, originale/copia nell'arte non è solo antico come dice anche il protagonista del film, ma se possiamo permetterci, anche abbastanza inconsistente. Il critico-teorico dell'arte del film si muove fra concetti enormi, scrive sui massimi sistemi, ma tanta teoria non sembra compatibile con la pratica attuale; insomma, il personaggio appare subito poco credibile e temo che un vero critico d'arte esca dalla sala irritato da un'indigestione di ingenuità.
Poi dobbiamo parlare della noia. Negli ultimi tempi, ci dicono, Kiarostami si è dedicato molto ai cortometraggi. E si sente!, verrebbe da dire: Copia conforme è un film più breve del normale, ma nonostante questo soffre di innegabili lungaggini in più di una fase: la scena iniziale della conferenza, che poteva essere solo accennata; la pur bella scena dell'auto sul cui parabrezza scorrono riflessi i palazzi toscani... ma quanto durano, e perché? - per non dire delle conversazioni fra lui e lei, che si avvitano per lunghi minuti senza progredire verso alcuna meta.
Un commento a parte merita l'ambientazione: una Toscana di maniera, una Lucignano turistica, effetto questo non a sufficienza smorzato dalla totale assenza di colonna sonora (l'insopportabile fisarmonica, che snocciola 'O surdato innamorato nell'improbabile festa matrimoniale in piazzetta, annulla del tutto l'efficacia della rinuncia). Né l'effetto Turisti per caso è vinto dal pur apprezzabile pudore del regista, che inquadra oggetti, palazzi e statue solo di sfuggita, di riflesso, per sottrazioni furtive dallo sguardo intimo dei protagonisti. La "maniera", purtroppo, sbuca fuori da ogni parte, come a sottolineare l'abbraccio mortale fra un regista iraniano, fresco, di qualità, e il mediocre sottobosco della coproduzione italiana (perfino la Regione Toscana è coinvolta, e allora come immaginare un film non celebrativo?): basti pensare ai tipi umani quasi da neorealismo post litteram. Come la barrista, sì, con due erre, che in un toscano affettato dispensa perle di saggezza popolare, o il figlio di lei che parla con lo smartphone sempre acceso (ah, ci mancava, al cinema!) e ci cosparge di indizi fallaci su sua madre, litigandoci e conquistandosi la palma assoluta dell'antipatia.
Ma detto tutto questo, va detta ancora la cosa principale. Se vuoi fare un film per raccontare una storia, allora l'azione sarà essenziale; se invece, come qui Kiarostami, ne vuoi fare uno che svisceri un determinato argomento, decisivi saranno i testi. Dato infatti il tema, devi riempirlo con dei contenuti che a) tengano lo spettatore sveglio e b) iniettino sangue vivo sul corpo del soggetto; altrimenti il soggetto resterà un cadavere freddo sul tavolo autoptico. E qui il regista sembra preoccuparsi molto del tema a lui caro, ma molto meno dei dialoghi, delle parole. Volutamente? Non è sufficiente giustificazione. E nell'essere i dialoghi brutta copia (non conforme) di quelli di altri film, di altri romanzi, di altra letteratura, sta la colpa fondamentale di questo pur raffinato filosofo del grande schermo.

lunedì 3 maggio 2010

C'E' DI BUONO (CONTROVOGLIA)

FROST / NIXON, film di Ron Howard, USA 2008 (apparentemente standard, pochi vedono il bel lato nascosto)
TRA LE NUVOLE, film di Jason Reitman, USA 2009 (un'altra bella prova del regista di Thank You for Smoking e di Juno e ottima recitazione di George Clooney)
BASILICATA COAST TO COAST, film di Rocco Papaleo, ITA 2010 (in Italia si sanno ormai fare solo favolette, ma questa è meglio delle altre)
DANIEL STEIN, TRADUTTORE, romanzo di Ljudmila Ulitskaja, Russia 2009 - Bompiani 2010 (un gigante di romanzo, pluritradotto nel mondo, che da noi - guarda caso - stenta)

sabato 24 aprile 2010

SUL MARE, di Alessandro Alatri (2010)

Ecco un altro film completamente inutile, se non fosse che, Pro Loco benedicente, ti fa vedere dei panorami mozzafiato di Ventotene.
Salvatore è 'nu bravo guaglione fortunato con le donne, beato lui, che però si strugge perché (ma pensa un po') non trova l'amore vero. Nell'attesa fa anche l'eroe: prima perché, unico al cantiere abusivo dove lavora d'inverno, fa amicizia con un nero, e poi perché gli salva la vita quando sta per cadere da un'impalcatura. Questo spunto narrativo, centrale nella prima parte del film, poi svanisce nel nulla: il nero viene rimpatriato e della vicenda non si parla più, in pratica, fino alla fine. Serviva solo per far vedere quanto è bravo 'o guaglione.
Ma le esigenze di promotion incalzano: si lascia lo squallido cantiere e ci si trasferisce tutti allo splendido mare di Ventotene, dove il guaglione ha una barca e porta in giro i turisti. O meglio principalmente le turiste, che non lo disdegnano affatto, anzi se lo ripassano perfino a due per volta. Ma quello non è amore, povero guaglione. Vabbe', mica si dice di no; però l'amore, quello vero, secondo la ricetta lasciatagli da un non meglio precisato maestro, "vuol dire desiderio, fiducia, ..." e non ricordo quale altra banalità. Vi ricordate "Amore vuol dire non dover mai dire 'mi spiace'"? Sembra di sentirne un'eco lontana.
Finché l'amore arriva, ma purtroppo ha le forme di una bella genovese in crisi di tutto: di studio, di identità, di rapporti. Per essere disponibile, lo è anche lei; salvo poi, amore o no, scaricare il nostro per un più comodo ritorno a casa. Si sa, Ventotene è bella ma viverci dev'essere un'altra cosa. Non basta neppure una famiglia di lui fatta, testuali parole!, di "gente povera, ma di gran cuore". E poi, lei studia giornalismo, si muove fra presunti intellettuali (se ne vedono le foto sul suo cellulare), è in lizza per un Erasmus, e chissà se glie lo ha spiegato, al guaglione, che cosa vuol dire Erasmus... E così la storia, pur costellata di nottate sul mare, tramonti malandrini, riprese aeree, effetti speciali, colori vivaci, musiche ruffiane, si avvia a un epilogo ovvio sin dall'inizio: il guaglione, che "teneva 'o mare", dal mare viene rapito. Un finalone...
P.S.: Non pervenuta la reazione della genovese, dal suo Erasmus di Barcellona.

domenica 18 aprile 2010

E' COMPLICATO, di Nancy Meyers (2010)

Che cosa c'è di nuovo in "E' complicato", con Maryl Streep e Alec Baldwin?
La storia di un innamoramento fra anziani? No, il grande Jack Nicholson era assai più credibile di Alec Baldwin in un film, tra l'altro, della stessa regista.
Allora la bravura di Maryl Streep? Beh, la conoscevamo già, e per la verità comincia ad essere un po' sempre uguale...
L'ambientazione? Per carità, le case con parco della Upper Class americana sono come le ville in Maremma di certi nostri film: non se ne può più!
Allora le trovate narrative? Vediamo. Com'è che i due ex coniugi si ritrovano da soli all'hotel, e la seconda e giovane moglie di lui non c'è? Semplice, le è capitato "un attacco di influenza intestinale". Sarà, ma non mi pare una gran trovata.
La caratterizzazione dei personaggi? Insomma... Lei nella parte della donna desiderata da tutti è quel che è, ma lui, sempre sovreccitato di fronte alle grazie di Meryl, davvero sconfina nel ridicolo: mitico quando rischia l'osso del collo per sbirciare dalla finestra con occhio arrapato il culo più che sessantenne di lei...
La musica? Lasciamo perdere. Le solite sdolcinature a mascherare le pecche della sceneggiatura. Ma il colmo è alla festa di laurea di uno dei giovanotti. Musica così, per ballare, i ragazzi di quell'età non la metterebbero neppure sotto minaccia di morte, e invece nel film tutti scodinzolano felici e contenti: genitori, figli e figliastri.
Forse i dialoghi? Chissà, proviamo a ricordarci qualcosa. Ma sì, le quattro amiche che a intervalli regolari si ritrovano a parlare di sesso e gossip. Oddio, ma non mi confonderò per caso con "Sex & the city"? Lì però i dialoghi erano brillanti, qui invece le quattro mature signore il massimo che riescono a ricavare dal loro limitato archivio mentale è la storiella della donna che a forza di astinenza le si è richiusa la vagina, e l'hanno dovuta operare. Sai che ridere.
Ma loro ridono e ridono, si sganasciano per tutto il film, poveri attori. Chissà se gli hanno pagato un'indennità mascellare. E se proprio non viene neppure un sorriso, ecco l'aiutino dello spinello, in omaggio ai vecchi tempi. Allora sì, le risate! Si ride anche alle battute più sgangherate, e che importa sforzarsi a inventarne di intelligenti, tanto c'è l'effetto cannabis. E più loro, gli attori, si sforzano di ridere, più a noi spettatori monta la tristezza: noi lo spinello non l'abbiamo fumato, nel cinema, e la stupidità delle battute ci prende alla gola.
Tristezza, sì: per questo scimmiottamento dell'adolescenza da parte di anziani con pancetta, per questo insistere di una brava attrice in parti da femme fatale, per la modestia intellettuale degli autori dei dialoghi e di una regista che no, non mi rassegno: non rappresenta l'America, che è pur sempre un grande Paese. Andate a vedere "Tra le nuvole", tanto per citare solo una commedia, e poi mi dite.

mercoledì 14 aprile 2010

LA PRIMA COSA BELLA, di Paolo Virzì (2010)

Devo ammettere: è un film carino, tutto sommato. Ma non è certo il capolavoro che la maggior parte degli spettatori proclama all'uscita del cinema. E volete sapere perché? Un capolavoro va rivisto a qualche anno di distanza. Provate ora a pensare questo film fra cinque, ma che dico, fra due anni: nessuno se lo filerà più, perché è un prodotto che sta su con lo scotch, un evento dal respiro cortissimo.
C'è la solita vecchia che la sa lunga (una Stefania Sandrelli quasi meglio del solito - ma la scena di lei sul letto di morte è quanto di meno credibile si possa immaginare: la sua faccia esprime l'agonia non meglio di come farebbe un ceppo di legno davanti all'ascia). La storia d'altra parte è strappalacrime: la vecchia è appunto malata terminale e il figliuol prodigo torna all'ovile in tempo per riconciliarsi prima che lei tiri il calzino. Si piange (se si è facili alla lacrimuccia) e si ride anche di gusto, più di una volta; e questo è un punto a favore di Virzì, che non ha fatto un film monocorde. Ma ci sono anche scene in cui il regista dimostra una pochezza culturale disarmante, come quella in cui la Sandrelli si trova in una festa di gran signori. E come sono questi gran signori? Ma guarda, parlano con la evve moscia, siedono su dei triclini che manco gli antichi romani... Come flash sociologico è troppo, troppo banale; e pensare che Feria d'Agosto ci aveva stupiti proprio per questo aspetto, oltre che per una comicità più frizzante ed originale.
Ma tant'è: Virzì, col suo nuovo filmino piccolo piccolo, si conferma regista davvero provinciale, e non si venga a nascondere dietro la foglia di fico del "provincialismo per scelta". Ma ve lo immaginate questo film, per dire, al festival di Cannes? Eppure, quanti film francesi con lo stesso budget riescono a uscire dal confine della loro remota provincia e a interessare un pubblico internazionale.
Non è questo il destino di "La prima cosa bella": un film di rilievo locale, fragile, di carta velina, il cui imminente oblio stupirà solo chi oggi, ma è una folla, inneggia al capolavoro.

MINE VAGANTI, di Ferzan Ozpetek (2010)

Il super raccomandato Ferzan Ozpetek, che in Italia ha trovato l'America, un sacco di soldi e di sponsors, ha fatto un altro film decisamente brutto, ma furbetto.
Provate a mettere assieme un tema alla moda (l'omosessualità, l'omofobia), un cast di attori molto fighi (Scamarcio, Fantastichini...), personaggi copiati di peso da altri film (la vecchia saggia, interpretata da una Ilaria Occhini tanto immobile da sembrare una statua di sale), delle trovate narrative anche quelle scopiazzate (la vecchia che si rimpinza di dolci...). Mescolate bene il tutto in una storia mielosa; ambientatela in un'Italia meridionale da cartolina, e avrete "Mine Vaganti". Certo, le immagini sono belle, ci mancherebbe; la scenografia è elegante, ma non basta. Il film naviga stancamente fino all'ultima scena come uno spot d'autore ma troppo lungo.
E poi, se fossi un gay, mi stupirei molto di trovare, in un film che intende promuovere la categoria, scenette di genere in cui gli omo sculettano come cocottes di avanspettacolo. E questo per assicurarsi la risata greve di un pubblico rozzo e, appunto, omofobo.
Non ci siamo, caro Ferzan. Tanti soldi girano, tanta gente accorrere al richiamo di un mito della filmografia; ma è un mito di cartone, destinato a rapido oblio non appena sponsors, finanziatori, comunità europea eccetera avranno virato su un altro. Non è una minaccia, è una constatazione.