sabato 23 ottobre 2010

Mammuth (film) di Benoît Delépine e Gustav Kervern (Francia 2010)

Girano paroloni all'anteprima nazionale di Mammuth. "Capolavoro" è la più prudente. In sala è presente il 50% dei registi, non chiedetemi quale dei due, ma come stazza basta per entrambi: è un omone barbuto che deve avere imparato la lezione di Benigni alla consegna dell'Oscar perché salta, si inchina, spalanca le manone, abbraccia platealmente gli astanti, sbaciucchia tutti, dalla timida interprete al presentatore al critico del Messaggero. Non è chiaro se sia simpatico davvero o reciti la parte, se sia sul serio ubriaco - come lui stesso suggerisce - o faccia finta; comunque la verve innata del nostro Benigni rimane lontana.
Ma la stazza del regista non è nulla rispetto a quella di Depardieu il quale peraltro, puntualizzano più volte dal palco, ha recitato gratis per amore della sceneggiatura. Il che risulta ben più un'autocelebrazione che un omaggio. Anzi, scherzano poi non più tanto cortesemente, questa è la prima e l'ultima volta che non lo vedete recitare per soldi...
Comunque Depardieu ce la mette tutta: la bravura e anche la panza, che viene spiattellata nella sua intera sgradevolezza, in linea con una scelta di esibizionismo del disgustoso che contraddistingue tutto il film. Perfino la splendida Isabelle Adjani viene utilizzata come fantasma di una fidanzata morta in gioventù, col volto rovinato da cicatrici e tumefazioni. Nulla ci viene risparmiato: I protagonisti sono tutti attoniti di fronte a una vita totalmente vuota e inutile: Gerard conosce la moglie, cassiera di un supermercato, perché sta comprando un coltello "per farla finita"; alla festa di pensionamento i colleghi se ne sbattono altamente di lui e masticano rumorose patatine, mentre un caposquadra legge distrattamente un foglietto con frasi di circostanza... e così via in una voluttà del repellente che smorza ogni vis comica, pur dichiarata e visibile. Già, perché in sala "si riderà e si piangerà", avvisa il regista prima dell'inizio.
Ma di che cosa dovremmo ridere? Qualcuno lo fa rumorosamente alla scena di reciproca masturbazione fra due vecchi. Mah...
E di che cosa dovremmo piangere? Forse alle apparizioni del fantasma Adjani? Troppo episodiche, troppo algide, troppo scollegate fra loro: non c'è un contesto che le renda commoventi, rimane soltanto un senso di oppressione.
La storia: Depardieu va in pensione da macellaio e l'INPS francese gli chiede delle carte relative a precedenti impieghi. E lui parte con una moto degli anni settanta, la Mammuth appunto, per un viaggio alla riconquista delle carte ma anche del suo traballante passato. L'idea è carina, ma i registi la trasformano in una serie di sketchs uno staccato dall'altro, dove attori più o meno estrosi cercano di dar prova di bravura di fronte allo sguardo che si direbbe quasi paziente di Depardieu. Un disastro. E la Mammuth, che secondo il critico del Messaggero farà "godere come maiali" i cultori delle moto vintage, non ha rilievo simbolico di alcun genere, e alla fine viene pure venduta.
Tra i film francesi che ho visto questo è il più "italiano", quello in cui è più evidente la medesima decadenza da una commedia arguta, oppure realistica, oppure onirica ma sempre ben concertata, a una sequela di scenette improbabili dove, fra l'altro, il grande assente è il dialogo. Anche i francesi insomma, mutatis mutandis, si sono pieraccionizzati. E per questa via, dalla lingua al dialetto e da questo ai gestacci ed ai rutti, finiremo a film fatti solo di grugniti. Che peccato.
Viene allora da rimpiangere Zavattini e gli altri che facevano storie con un inizio, uno svolgimento e una fine, magari non eccelse ma sempre intriganti. Dove sono gli sceneggiatori oggi? Ci aggrappavamo ancora ai francesi dei vari Giù al nord eccetera; speriamo che non si siano ridotti al livello di questi.

venerdì 22 ottobre 2010

Quella sera dorata (film), regia di James Ivory, UK 2010

La prima cosa che ci si chiede andando al cinema è perché mai l'importatore italiano abbia sentito il bisogno di modificare il buon titolo originale, The City Of Your Final Destination nell'orrendo Quella sera dorata. Con tutti i film che mantengono il titolo inglese, ce n'era proprio bisogno?.
Il caso ha voluto che avessi letto il romanzo di Peter Cameron da cui il film è tratto. Ho potuto così valutare le differenze, inevitabili, e a volte apprezzabili, che distinguono l'opera cinematografica dal suo archetipo cartaceo. E quali sono queste differenze? Nessuna, sarei tentato di dire; il che però equivale a dire che il valore aggiunto del film rispetto al libro è pari a zero.
Il romanzo, pur non straordinario, aveva una trama molto intrigante: un dottorando americano deve scrivere la biografia di un osannato scrittore morto da poco, autore peraltro di un solo libro. Da vecchio, questi si era rifugiato in Uruguay, dove viveva in una hacienda sperdutissima in compagnia della moglie e dell'amante. Le due donne vivono ancora assieme, fra ovvie gelosie e inspiegabili legami, mentre nella fattoria accanto vive il vecchio fratello gay dello scrittore con il giovane e adorante compagno. L'autorizzazione alla biografia viene negata e così il dottorando, sfuggendo anche a una fidanzata prevaricatrice e parecchio arpìa, vola in Uruguay e si insedia in villa.
In effetti il regista segue il canovaccio molto fedelmente, quasi troppo. Però alcune differenze ci sono, tutte in negativo. Non viene restituita in immagini l'efficace ragnatela di rapporti che si instaura con l'arrivo del dottorando, quel suo pendolante trattare con l'uno e con l'altro, l'alternarsi di risposte affermative che diventano negative e negative che diventano sì. Era uno dei punti di forza del libro; nel film è tutto semplificato, e non solo per ragioni di tempo: le posizioni dei personaggi sono più statiche e la vicenda si avvia al suo finale in modo più lineare e dunque più banale.
Va poi citato un episodio particolare. Il vecchio scrittore si era portato fino in Uruguay una gondola veneziana e l'aveva parcheggiata in una capanna in riva a un lago, a qualche chilometro da casa. La gondola, quasi marcita nel suo buio rifugio, nel libro è una presenza simbolica, anzi magica, capace di sciogliere l'amore fra il protagonista e una delle donne. Nel film invece ha rilievo modesto e la gita dei due giovani al lago appare non più un'ascesa carica di significati ma un mero passaggio narrativo.
Ivory è un panificatore di dolciumi, un confezionatore di film caramellati. Non una sbavatura, non una caduta di stile. Anche troppo: si avrebbe quasi voglia che un attore sbattesse a un tratto contro una quinta di tela, come in The Truman Show; ma Ivory tira dritto senza incertezze di sorta fra tramonti screziati e facce di indiscutibile espressività (ricordiamo l'efficace interpretazione di Anthony Hopkins!).
A me Ivory non piaceva sin dai tempi di Camera con vista, realizzato in una Firenze che più turistica e di maniera non si sarebbe potuto. E quei dubbi mi si sono rafforzati oggi con questo film perfetto ma superficiale, senza spessore, incapace di cogliere la complessità delle vicende e la profondità dei caratteri.