venerdì 22 ottobre 2010

Quella sera dorata (film), regia di James Ivory, UK 2010

La prima cosa che ci si chiede andando al cinema è perché mai l'importatore italiano abbia sentito il bisogno di modificare il buon titolo originale, The City Of Your Final Destination nell'orrendo Quella sera dorata. Con tutti i film che mantengono il titolo inglese, ce n'era proprio bisogno?.
Il caso ha voluto che avessi letto il romanzo di Peter Cameron da cui il film è tratto. Ho potuto così valutare le differenze, inevitabili, e a volte apprezzabili, che distinguono l'opera cinematografica dal suo archetipo cartaceo. E quali sono queste differenze? Nessuna, sarei tentato di dire; il che però equivale a dire che il valore aggiunto del film rispetto al libro è pari a zero.
Il romanzo, pur non straordinario, aveva una trama molto intrigante: un dottorando americano deve scrivere la biografia di un osannato scrittore morto da poco, autore peraltro di un solo libro. Da vecchio, questi si era rifugiato in Uruguay, dove viveva in una hacienda sperdutissima in compagnia della moglie e dell'amante. Le due donne vivono ancora assieme, fra ovvie gelosie e inspiegabili legami, mentre nella fattoria accanto vive il vecchio fratello gay dello scrittore con il giovane e adorante compagno. L'autorizzazione alla biografia viene negata e così il dottorando, sfuggendo anche a una fidanzata prevaricatrice e parecchio arpìa, vola in Uruguay e si insedia in villa.
In effetti il regista segue il canovaccio molto fedelmente, quasi troppo. Però alcune differenze ci sono, tutte in negativo. Non viene restituita in immagini l'efficace ragnatela di rapporti che si instaura con l'arrivo del dottorando, quel suo pendolante trattare con l'uno e con l'altro, l'alternarsi di risposte affermative che diventano negative e negative che diventano sì. Era uno dei punti di forza del libro; nel film è tutto semplificato, e non solo per ragioni di tempo: le posizioni dei personaggi sono più statiche e la vicenda si avvia al suo finale in modo più lineare e dunque più banale.
Va poi citato un episodio particolare. Il vecchio scrittore si era portato fino in Uruguay una gondola veneziana e l'aveva parcheggiata in una capanna in riva a un lago, a qualche chilometro da casa. La gondola, quasi marcita nel suo buio rifugio, nel libro è una presenza simbolica, anzi magica, capace di sciogliere l'amore fra il protagonista e una delle donne. Nel film invece ha rilievo modesto e la gita dei due giovani al lago appare non più un'ascesa carica di significati ma un mero passaggio narrativo.
Ivory è un panificatore di dolciumi, un confezionatore di film caramellati. Non una sbavatura, non una caduta di stile. Anche troppo: si avrebbe quasi voglia che un attore sbattesse a un tratto contro una quinta di tela, come in The Truman Show; ma Ivory tira dritto senza incertezze di sorta fra tramonti screziati e facce di indiscutibile espressività (ricordiamo l'efficace interpretazione di Anthony Hopkins!).
A me Ivory non piaceva sin dai tempi di Camera con vista, realizzato in una Firenze che più turistica e di maniera non si sarebbe potuto. E quei dubbi mi si sono rafforzati oggi con questo film perfetto ma superficiale, senza spessore, incapace di cogliere la complessità delle vicende e la profondità dei caratteri.

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