sabato 24 aprile 2010

SUL MARE, di Alessandro Alatri (2010)

Ecco un altro film completamente inutile, se non fosse che, Pro Loco benedicente, ti fa vedere dei panorami mozzafiato di Ventotene.
Salvatore è 'nu bravo guaglione fortunato con le donne, beato lui, che però si strugge perché (ma pensa un po') non trova l'amore vero. Nell'attesa fa anche l'eroe: prima perché, unico al cantiere abusivo dove lavora d'inverno, fa amicizia con un nero, e poi perché gli salva la vita quando sta per cadere da un'impalcatura. Questo spunto narrativo, centrale nella prima parte del film, poi svanisce nel nulla: il nero viene rimpatriato e della vicenda non si parla più, in pratica, fino alla fine. Serviva solo per far vedere quanto è bravo 'o guaglione.
Ma le esigenze di promotion incalzano: si lascia lo squallido cantiere e ci si trasferisce tutti allo splendido mare di Ventotene, dove il guaglione ha una barca e porta in giro i turisti. O meglio principalmente le turiste, che non lo disdegnano affatto, anzi se lo ripassano perfino a due per volta. Ma quello non è amore, povero guaglione. Vabbe', mica si dice di no; però l'amore, quello vero, secondo la ricetta lasciatagli da un non meglio precisato maestro, "vuol dire desiderio, fiducia, ..." e non ricordo quale altra banalità. Vi ricordate "Amore vuol dire non dover mai dire 'mi spiace'"? Sembra di sentirne un'eco lontana.
Finché l'amore arriva, ma purtroppo ha le forme di una bella genovese in crisi di tutto: di studio, di identità, di rapporti. Per essere disponibile, lo è anche lei; salvo poi, amore o no, scaricare il nostro per un più comodo ritorno a casa. Si sa, Ventotene è bella ma viverci dev'essere un'altra cosa. Non basta neppure una famiglia di lui fatta, testuali parole!, di "gente povera, ma di gran cuore". E poi, lei studia giornalismo, si muove fra presunti intellettuali (se ne vedono le foto sul suo cellulare), è in lizza per un Erasmus, e chissà se glie lo ha spiegato, al guaglione, che cosa vuol dire Erasmus... E così la storia, pur costellata di nottate sul mare, tramonti malandrini, riprese aeree, effetti speciali, colori vivaci, musiche ruffiane, si avvia a un epilogo ovvio sin dall'inizio: il guaglione, che "teneva 'o mare", dal mare viene rapito. Un finalone...
P.S.: Non pervenuta la reazione della genovese, dal suo Erasmus di Barcellona.

domenica 18 aprile 2010

E' COMPLICATO, di Nancy Meyers (2010)

Che cosa c'è di nuovo in "E' complicato", con Maryl Streep e Alec Baldwin?
La storia di un innamoramento fra anziani? No, il grande Jack Nicholson era assai più credibile di Alec Baldwin in un film, tra l'altro, della stessa regista.
Allora la bravura di Maryl Streep? Beh, la conoscevamo già, e per la verità comincia ad essere un po' sempre uguale...
L'ambientazione? Per carità, le case con parco della Upper Class americana sono come le ville in Maremma di certi nostri film: non se ne può più!
Allora le trovate narrative? Vediamo. Com'è che i due ex coniugi si ritrovano da soli all'hotel, e la seconda e giovane moglie di lui non c'è? Semplice, le è capitato "un attacco di influenza intestinale". Sarà, ma non mi pare una gran trovata.
La caratterizzazione dei personaggi? Insomma... Lei nella parte della donna desiderata da tutti è quel che è, ma lui, sempre sovreccitato di fronte alle grazie di Meryl, davvero sconfina nel ridicolo: mitico quando rischia l'osso del collo per sbirciare dalla finestra con occhio arrapato il culo più che sessantenne di lei...
La musica? Lasciamo perdere. Le solite sdolcinature a mascherare le pecche della sceneggiatura. Ma il colmo è alla festa di laurea di uno dei giovanotti. Musica così, per ballare, i ragazzi di quell'età non la metterebbero neppure sotto minaccia di morte, e invece nel film tutti scodinzolano felici e contenti: genitori, figli e figliastri.
Forse i dialoghi? Chissà, proviamo a ricordarci qualcosa. Ma sì, le quattro amiche che a intervalli regolari si ritrovano a parlare di sesso e gossip. Oddio, ma non mi confonderò per caso con "Sex & the city"? Lì però i dialoghi erano brillanti, qui invece le quattro mature signore il massimo che riescono a ricavare dal loro limitato archivio mentale è la storiella della donna che a forza di astinenza le si è richiusa la vagina, e l'hanno dovuta operare. Sai che ridere.
Ma loro ridono e ridono, si sganasciano per tutto il film, poveri attori. Chissà se gli hanno pagato un'indennità mascellare. E se proprio non viene neppure un sorriso, ecco l'aiutino dello spinello, in omaggio ai vecchi tempi. Allora sì, le risate! Si ride anche alle battute più sgangherate, e che importa sforzarsi a inventarne di intelligenti, tanto c'è l'effetto cannabis. E più loro, gli attori, si sforzano di ridere, più a noi spettatori monta la tristezza: noi lo spinello non l'abbiamo fumato, nel cinema, e la stupidità delle battute ci prende alla gola.
Tristezza, sì: per questo scimmiottamento dell'adolescenza da parte di anziani con pancetta, per questo insistere di una brava attrice in parti da femme fatale, per la modestia intellettuale degli autori dei dialoghi e di una regista che no, non mi rassegno: non rappresenta l'America, che è pur sempre un grande Paese. Andate a vedere "Tra le nuvole", tanto per citare solo una commedia, e poi mi dite.

mercoledì 14 aprile 2010

LA PRIMA COSA BELLA, di Paolo Virzì (2010)

Devo ammettere: è un film carino, tutto sommato. Ma non è certo il capolavoro che la maggior parte degli spettatori proclama all'uscita del cinema. E volete sapere perché? Un capolavoro va rivisto a qualche anno di distanza. Provate ora a pensare questo film fra cinque, ma che dico, fra due anni: nessuno se lo filerà più, perché è un prodotto che sta su con lo scotch, un evento dal respiro cortissimo.
C'è la solita vecchia che la sa lunga (una Stefania Sandrelli quasi meglio del solito - ma la scena di lei sul letto di morte è quanto di meno credibile si possa immaginare: la sua faccia esprime l'agonia non meglio di come farebbe un ceppo di legno davanti all'ascia). La storia d'altra parte è strappalacrime: la vecchia è appunto malata terminale e il figliuol prodigo torna all'ovile in tempo per riconciliarsi prima che lei tiri il calzino. Si piange (se si è facili alla lacrimuccia) e si ride anche di gusto, più di una volta; e questo è un punto a favore di Virzì, che non ha fatto un film monocorde. Ma ci sono anche scene in cui il regista dimostra una pochezza culturale disarmante, come quella in cui la Sandrelli si trova in una festa di gran signori. E come sono questi gran signori? Ma guarda, parlano con la evve moscia, siedono su dei triclini che manco gli antichi romani... Come flash sociologico è troppo, troppo banale; e pensare che Feria d'Agosto ci aveva stupiti proprio per questo aspetto, oltre che per una comicità più frizzante ed originale.
Ma tant'è: Virzì, col suo nuovo filmino piccolo piccolo, si conferma regista davvero provinciale, e non si venga a nascondere dietro la foglia di fico del "provincialismo per scelta". Ma ve lo immaginate questo film, per dire, al festival di Cannes? Eppure, quanti film francesi con lo stesso budget riescono a uscire dal confine della loro remota provincia e a interessare un pubblico internazionale.
Non è questo il destino di "La prima cosa bella": un film di rilievo locale, fragile, di carta velina, il cui imminente oblio stupirà solo chi oggi, ma è una folla, inneggia al capolavoro.

MINE VAGANTI, di Ferzan Ozpetek (2010)

Il super raccomandato Ferzan Ozpetek, che in Italia ha trovato l'America, un sacco di soldi e di sponsors, ha fatto un altro film decisamente brutto, ma furbetto.
Provate a mettere assieme un tema alla moda (l'omosessualità, l'omofobia), un cast di attori molto fighi (Scamarcio, Fantastichini...), personaggi copiati di peso da altri film (la vecchia saggia, interpretata da una Ilaria Occhini tanto immobile da sembrare una statua di sale), delle trovate narrative anche quelle scopiazzate (la vecchia che si rimpinza di dolci...). Mescolate bene il tutto in una storia mielosa; ambientatela in un'Italia meridionale da cartolina, e avrete "Mine Vaganti". Certo, le immagini sono belle, ci mancherebbe; la scenografia è elegante, ma non basta. Il film naviga stancamente fino all'ultima scena come uno spot d'autore ma troppo lungo.
E poi, se fossi un gay, mi stupirei molto di trovare, in un film che intende promuovere la categoria, scenette di genere in cui gli omo sculettano come cocottes di avanspettacolo. E questo per assicurarsi la risata greve di un pubblico rozzo e, appunto, omofobo.
Non ci siamo, caro Ferzan. Tanti soldi girano, tanta gente accorrere al richiamo di un mito della filmografia; ma è un mito di cartone, destinato a rapido oblio non appena sponsors, finanziatori, comunità europea eccetera avranno virato su un altro. Non è una minaccia, è una constatazione.