sabato 23 aprile 2016

Le confessioni (film) di Roberto Andò, con Toni Servillo, Italia/Francia 2016

Chi sarà mai colui "che move il sole e l'altre stelle"? Noi ingenui elettori avevamo creduto che a dirigere perlomeno le cose terrene fossero i governi legittimi di Paesi sovrani. Macché, dice Andò, è vero quel che abbiamo sempre sospettato, e che ci hanno sempre detto i dietrologi e i complottisti: dietro le quinte, un manipolo di "economisti" (???) al vertice del FMI prende decisioni in grado di condizionare il "sistema", di affamare famiglie e Paesi, di muovere risorse da un capo all'altro del pianeta, rispondendo alle esigenze di una misteriosa signora che, durante le riunioni, appare in teleconferenza sullo sfondo di significativi grattacieli, e detta le sue condizioni. Questi signori sono privi di cuore, ma risultano anche dei perfetti incompetenti. Utilizzano infatti un gergo privo di qualsiasi termine specialistico o tecnico, ma ricco, in compenso, di inconcludenti allusività. Ogni dialogo sembra rinviare a misteriose logiche o superiori significati, che però sono sempre sopra le righe, sempre altrove e mai chiari. Anzi, sempre volutamente oscuri, anche perché il primo a ignorarli è proprio lo sceneggiatore. In tutto questo entra l'imprevisto, ovvero il cancro di cui cade vittima il presidente del FMI. La malattia gli gioca proprio un brutto tiro, perché gli apre una prospettiva nuova nella quale il sole e l'altre stelle le muove qualcun altro. Meglio consultarsi col ministro di questo qualcun altro. E alla nuova riunione del FMI, a parte una scrittrice di favole per bambini la cui presenza nel film rimane un enigma irrisolto, viene invitato un monaco, dal cognome Salus cioè, guarda guarda, Salute in latino. Salus non parla, ha fatto voto di silenzio. In compenso ha sempre il sopracciglio sollevato, e le poche parole che dice sono sempre dense di significati superiori: anche quelle, come le altre. Esse rimandano sempre a nebulose alterità. Per cui, in tutto il film, non c'è un dialogo normale, che so, "gradisce un caffè?". Si spara una sentenza, e se ne risponde un'altra. I ritmi sono sempre lenti e inesorabili, le parole e i toni sempre ammiccanti, ma a che cosa non si capisce bene. Una vera noia, e la palpebra cala lentamente. Che cosa mai avrà detto il presidente al frate tutto d'un pezzo, prima di togliersi di mezzo? Avrà mica confessato l'inconfessabile? Da ciò sembra dipendere un'importantissima manovra del FMI e lo stesso destino dei suoi membri. Il monaco non molla, ça va sans dire: siamo in confessione, e il segreto è segreto. Ma alla fine disegna sulla lavagna luminosa un'astrusa formula matematica, direi anzi magica, che - come veniamo a sapere - potrebbe sconvolgere i piani del FMI e il mondo intero. Ma che sarà mai, diciamo noi modesti spettatori cassettisti di borsa? Di certo i membri del FMI mostrano un vero terrore di questa formula, anche se a loro onore va detto che non ne capiscono un'acca neppure loro. Meglio comunque andarci coi piedi di piombo. Due o tre di loro si sfilano, e alla fine la famigerata decisione (di che tipo non è dato sapere) viene annullata davanti alla stampa mondiale. Bel colpo, per il nostro fraticello, peraltro ex matematico, tanto che lui il potenziale della formula l'ha capito, a quanto pare. Tutta la vicenda si svolge in un lussuoso resort tedesco, dove la gente arriva in elicottero, i camerieri sono felpati e eleganti e la stessa polizia è complice, tenendo segreta per l'intero week-end la notizia della morte del presidente. Davvero ridicolo, dico io, pensare che la morte di un presidente del FMI possa, nel mondo di oggi, essere nota a un centinaio di persone, fra ospiti e albergatori, e non trapelare per giorni. Ma nei film di seconda categoria può avvenire anche questo, basta sceneggiarlo. Questo albergo ne ricorda altri, come ad esempio quello di Youth; ritmi pesanti e allusività gonfiate artificialmente mi ricordano La vita è bella; la suspence (peraltro maldestra e senza sbocchi narrativi), e anche la faccia di Servillo, fanno pensare a Il nome della rosa. Alla fine il funerale del presidente viene officiato dallo stesso monaco Salus davanti ai soli protagonisti del film, nel giardino dell'hotel (è così che funziona in casi come questo? ma dai...). Il che dà al regista il destro di infilzarci con un ultimo pistolotto moralistico. Ogni elemento di questo film, finale compreso, suona velleitario e falso, e pertanto estremamente irritante per uno spettatore impaziente come colui che scrive queste note.

domenica 10 gennaio 2016

Irrational man (film), di Woody Allen, con Emma Stone, Joaquin Phoenix, Parker Posey, Jamie Blackley, USA 2015

Adesso so che cos'è un viale del tramonto. Quando non ha quel fondo tragico alla Gloria Swanson e Billy Wilder, è il patetico insistere di un regista ottantenne sui temi già usati, sui soliti vizi non più trasfigurati dall'ispirazione. E' il fare film di routine, tanto per farli, senza più voglia alcuna: neppure per i soldi, direi, visto che deve averne ancora parecchi nonostante i divorzi; ma piuttosto per esserci, per non mollare. Fa tanta tristezza constatare che il fine umorista Woody Allen non ha neppure più voglia di ridere, che del suo umorismo nero, molto autenticamente ebraico, non è rimasto che il nero, senza umorismo. Anche in questo Irrational Man le allusioni colte non mancano, ma sono a casaccio, e a sproposito. Prima di tutto quella a Delitto e castigo, del tutto inconsistente. Ma altre cose non tornano, e soprattutto non torna la filosofia del professore di filosofia: la sua pretesa eccezionalità di insegnante consisterebbe in quattro o cinque frasi fatte, da cui una materia altrimenti arida risulterebbe arricchita di sentimenti e passioni. Peccato che si tratti solo di dimostrazioni di ignoranza. E si badi: di ignoranza, non di crudeltà o di lucida follia, che è quanto il film intende invece attribuire al professore. E così, fra una citazione pseudo-colta e un'altra, si giunge all'epilogo, che a me ha tanto ricordato quello de Il vedovo, capolavoro, questo davvero sì, di Dino Risi con Alberto Sordi e Franca Valeri. Ma quelle erano sceneggiature vere, mica appunti frettolosi come questo.

Quo vado (film), di Gennaro Nunziante e Checco Zalone, Italia 2015

Lo confesso: sono entrato al cinema che il film era già iniziato da quasi mezz'ora. Per quel che ho visto, però, questo capolavoro campione d'incassi soffre degli stessi problemi dei vari film costruiti su misura per il comico mattatore di turno, vuoi che sia Pieraccioni, o il povero Troisi, o Nuti, o il trio Aldo Giovanni e Giacomo, e così via: non è l'attore a servire al film; al contrario, il film è tutto costruito, dall'inizio alla fine, per creare gags da mettere in bocca all'attore. Ovvero, è il film che serve all'attore. Riguardo a Quo vado, che si può dire? Zalone è abile e pure simpatico, ma la sua bravura è cosa da sketches, dove a me pare attualmente imbattibile, e non da lungometraggi. Peggio ancora se si mette a fare il primattore bello, giovane e tombeur des femmes. Ma il pubblico è di bocca buona, beve e sorvola. Tanta è la sete di battutacce elementari, tanto il bisogno di comicità facile, di quella che muove i muscoli della bocca ma non impegna la massa cerebrale. Quanto a questa è un peccato perché Zalone la possiede ma non la usa, o forse l'impresa era francamente troppo ardua per uno come lui privo di adeguata esperienza cinematografica e di prospettiva. E così il canovaccio è strizzatissimo, il film un limone prosciugato di qualsiasi succo. In breve, la vicenda si sviluppa dal contrasto fra luoghi comuni triti e ritriti: da una parte l'italianità cafona di chi persegue, conquista e difende ad oltranza il "posto fisso"; di chi si arrangia, dei figli mammoni, e di tutto quanto da sempre abbiamo già visto. Nulla manca, neppure il clacson al semaforo, il parcheggio in seconda fila, la pastasciutta al dente. Dall'altra la rigidità nordeuropea, inappuntabile, ammirevole ma fredda. Il finale non è una sintesi fra i due estremi, ma solo un comodo atto autoassolutorio e consolatorio che olezza di provincialismo in modo insopportabile. Pensiamo solo a un povero straniero che si veda questo film. Che penserà di noi, e dell'idea che abbiamo di lui? Ho i brividi a pensarci. Ma c'è dell'altro: tutta la storia è narrata da Zalone a una tribù di selvaggi dell'Africa nera. Roba da falde del Kilimanjaro paraponziponzipò. Ahimè, roba più che vagamente razzista, roba che solo un presuntuoso mangiaspaghetti poteva concepire. Ah già, ma c'è il finale buonista, con l'acquisto dei medicinali per l'ospedale dei boveri negri... Ma che brava gente sono questi italiani, quando ci si mettono. Si tolgono di bocca il maltolto, e come fanno loro la carità non la fa nessuno, fra gli osanna dei boveri negri riconoscenti. Nauseabondo, non c'è altro da dire. E al calare del sipario, nulla mi avrebbe convinto a restare per vedermi la prima mezz'ora perduta. Piuttosto mi infliggo dieci puntate de Il Segreto in TV.