mercoledì 30 giugno 2010

NOTTI MONDIALI (la Rai in Sudafrica, 2010)

RAIUNO TRASMETTE DAL SATELLITE
Raiuno è sbarcata sul satellite (ma i suoi giornalisti non se ne sono ancora accorti). Questo dev'essere successo alla scombinata combriccola che ci rovina ogni sera il piacere del campionato del mondo di calcio. Trasmettono da qualche satellite di Marte, inconsapevoli e indifferenti a un mondo piccino e distante. La loro astronave fatta di palcoscenico, telecamere, ospiti, quinte teatrali, macchinari, moviole touch screen, si è persa per la tangente e vaga in un iperuranio da dove nulla e nessuno può distrarli o richiamarli alla realtà.
La nave va, l'orchestra prova, nessun gong irrompe fellinianamente sulla scena. E loro ci credono, credono fermamente che ciò che li occupa sia una priorità degli italiani.
Invece, gli italiani vorrebbero vedere calcio, azioni, quelle piccole grandi meravigliose invenzioni dei campioni; e i gol!... Ma il calcio è proprio il grande assente su Rai Uno.
Vabbe', l'Italia è stata eliminata. Giusto l'occasione per prendersela con tutti, dall'allenatore incapace (ma io l'avevo detto...) all'ultimo dei massaggiatori, e poi via di nuovo con lo sghignazzo autoreferenziale. In fondo che cosa c'entra l'Italia, il campionato, tutta quella gente negli stadi? L'importante è avere tempo per aggiungere l'ultima freddura, imbeccare il sedicente opinionista, permettere a Costanzo di sputacchiare sentenze incomprensibili e a Galeazzi di esibire la panza.
Poi irrompe il moviolista cotonato in servizio permanente effettivo, quello che sul gol da antologia trova il peluzzo, il difetto che non avevamo notato, il dito mignolo in millimetrico fuorigioco. Et voilà: se avevamo un mito, eccolo sputtanato. Ma non è tutto: funzione precipua della moviola è lo sbugiardamento degli arbitri. Grazie a questi professorini possiamo prendercela anche con loro, incapaci per definizione e forse in malafede, e più ancora con quel malefico Blatter colpevole, ahilui, di non genuflettersi al potere forte della tecnologia. E poi, sai che gusto distruggere l'ingenua convinzione che abbia vinto il migliore. Ma no, no! Non con merito proprio ma per intollerabile ingiustizia la tale squadra ha prevalso. L'altra, quella eliminata, era la meglio del baraccone! E allora proviamo a stilare una classifica al netto delle sviste, delle distrazioni, dei mignoli in fuorigioco. Un test eccitante, anzi facciamo un bel sondaggio! E qui poi regnano le "statistiche", che spesso nel lessico pseudotecnico dei giornalisti rai sta a significare dati storici, altro che statistici; ma che importa?
Le ore passano, del calcio neppure l'ombra... La lucida pelata di un conduttore irrigidito come un palo ricorda troppo da vicino l'erezione di una testa di c...; ci si collega in alternanza con Roma (però piazza di Siena, mica via Asiago), Johannesburg, Città del Capo... prima c'era anche Casa Azzurri (che nome originale!). Il tutto con larghezza di mezzi tecnici e sfoggio di gente dura: uno spaesato Mazzola, un Collovati voglioso di stimolare la polemica, una squinzia di cui non chiedetemi il nome...
Ma ci pensate al costo di tutto ciò? E poi dice che non trasmettono Spagna Portogallo, o qualche altra partita gioiello, per non spendere??? Che vantaggio c'è a far studio da Johannesburg (con seguito di grand hotel, ristoranti, e quant'altro), quando si poteva far lo stesso da via Asiago in Roma con gli scenari e lo staff già pronti?
Ma dimenticavo: non è giornalismo, è format. Vuoi mettere. Se trasmettessero solo i filmati delle azioni, commentandoli, sarebbe volgare giornalismo. Invece, col format qualche presunto anchorman può incassare ricchi diritti d'autore, alla faccia del contribuente italiano.
Ma l'Italia è lontana, e godiamoci l'happy hour sudafricano senza ombra di nostalgia; ma che dico, senza un refolo di dignità. Quella è caduta dalla tolda del Titanic televisivo, si è persa nello spazio siderale.

domenica 20 giugno 2010

LA NOSTRA VITA, di Daniele Luchetti, 2010

Non tutti i film italiani sono brutti; ma tutti - o quasi - devono pescare le loro storie in situazioni di disagio, ambienti degradati, periferie sconsolanti, problematiche di emarginazione o di diversità... Perché? D'accordo, l'Italia è anche questo; e una volta forse raccontare il brutto, lo sporco e il cattivo era un merito: implicava un difficile andar contro corrente. Ma siamo sicuri che, con l'andare degli anni, non sia diventato anche troppo comodo? Raccontare storie tristi o squallide sembra oggi molto più facile: sollecita coperture politiche forti, solletica il senso di colpa di certi ambienti che contano; ed inoltre, il degrado, l'ambiente sottoproletario, giustificano appieno il comodo ricorso a certi slangs dialettali romaneschi che non necessitano di scuola di dizione, né tantomeno di accademia di teatro. Mentre se devi costruire una commedia, magari di ordinaria borghesia, devi mettere in campo risorse interpretative che non tutti gli attori italiani possiedono. E poi il dolore paga più della felicità, al cinema come in letteratura. Vuoi mettere.
E così, ecco l'ennesimo filmetto italiano dal budget striminzito. L'ambientazione? Una banlieu che stringerebbe il cuore a un redivivo Pasolini. Il mare? Una terrazzetta su una spiaggia vuota. I protagonisti? Gente che vive nel ristretto orizzonte che gli è capitato, mai la testa fuori. I soldi? Sempre mancanti, fra cravattari e bustarelle. Le tasse? Mai pagate da nessuno, fare nero è un vanto. Il lavoro? Va sempre male, si fanno case che sono dei colabrodi. Il clima? Piove quasi sempre, e non sulla favola bella, ma sullo scalcinato impiantito di un cantiere fatiscente. La storia? Lui e lei sono felici, due bambini e un terzo in arrivo; si amano teneramente e fisicamente nonostante il pancione (ah, che banalità le trovate per ritagliarsi intimità lasciando i figlioletti fuori della porta!); ma poi lei muore di parto. Un dolore atroce per lui, che però cerca il riscatto sul lavoro. Vuol garantire ai figli un futuro migliore, e dunque rischia grosso: prende un subappalto, ci mette tutto quel che ha e quel che un vice-cravattaro buono (l'irriconoscibile Luca Zingaretti) gli fa avere. Ma le cose non sono mai facili: il lavoro va a rilento, i soldi vanno restituiti, a Zingaretti sfasciano la casa... Bisogna ricorrere ai familiari, che in uno slancio di generosità donano tutto, anche le sterline d'oro della mamma morta (ma com'è forte la solidarietà, fra poveri per bene!). Non basta, non basta! La casa in costruzione sta per crollare, gli operai senza stipendio si ammutinano, il disastro è vicino. Per di più lui è costretto a confessare a un grassoccio ragazzo rumeno di aver taciuto sulla morte di suo padre in cantiere.
Ma poi, un deus ex machina irrompe sulla scena sotto forma di una ditta di Frosinone, pensa un po', che in tre giorni finisce il lavoro garantendo al protagonista, e agli spettatori saturi di disgrazie, un lieto fine appiccicaticcio.
Modeste vicende di un mondo ai margini. Ma perché continuare a lavorarci attorno, intendendo conferirgli (ma senza riuscirvi quasi mai) una dignità artistica? E a proposito di arte, non è infrequente nella cinematografia anche straniera adottare una canzone come leit-motiv della storia. Ma si può fare in tanti modi. Il peggiore è quello scelto da Luchetti: presumere che siamo tutti stregati da Vasco Rossi, trattare una sua modesta canzonetta come se fosse un mito super partes, pensare che basti da sé a commuovere tutti noi spettatori (non solo il protagonista). E così farla cantare a squarciagola agli attori perfino come ode funebre durante il funerale della sposa. Peccato che la canzone non sia un capolavoro. Luchetti evidentemente adora Vasco Rossi ma non si accorge che la sua è appena un'opinione, ben altri sono i miti in grado di reggere un ruolo come quello che lui vorrebbe attribuirgli. Ricordate la poesia funebre letta durante Quattro matrimoni e un funerale? Fermate gli orologi, tagliate i fili del telefono e regalate un osso al cane, affinché non abbai. Faccia silenzio il pianoforte, tacciano i risonanti tamburi, che avanzi la bara, che vengano gli amici dolenti. Lasciate che gli aerei volteggino nel cielo e scrivano l'odioso messaggio: lui è morto. Guarnite di crespo il collo bianco dei piccioni e fate che il vigile urbano indossi lunghi guanti neri.... (ecc.) Quella sì...; ma non era Vasco Rossi, era Wystan Auden!
Si è poi premiata la bravura del protagonista, si è apprezzata in generale quella di tutti gli attori, e in effetti c'è del buono; ma sempre in un ambito di spontaneità espressiva, come prima dicevo, che trae linfa dal vissuto, non certo da scuola e applicazione.
Finché il cinema italiano resterà così naif e ideologicamente orientato, mai sarà in grado di competere.

sabato 12 giugno 2010

COPIA CONFORME. di Abbas Kiarostami, 2010

Kiarostami non è un regista qualsiasi. Segue un filo conduttore, svolge un tema che gli sta a cuore e che torna protagonista anche ad anni di distanza. Questo tema è il rapporto fra vero e falso, fra originale e copia.
In quest'ultima prova, Copia conforme, l'indagine lascia ogni altro terreno, compreso quello della truffa (Close-up), e si cala direttamente nel nocciolo della questione vero/falso: quello dell'arte. Un critico d'arte e un'antiquaria ne discutono: che cos'è un originale? Forse la Gioconda? O non è anch'essa una copia, mentre originale era solo la Monna Lisa in carne ed ossa? Ma allora, in che cosa è da preferirsi l'opera di Leonardo rispetto alle copie realizzate in seguito? I protagonisti mostrano di non saperlo, o per lo meno esibiscono, verso il falso, una pensosa indulgenza.
La questione vero/falso finisce per coinvolgere anche le relazioni personali fra i protagonisti: lui e lei si sono incontrati più o meno casualmente; parlano, si gettano ami... sembra un normale imbrocco; ma poi lei riferisce a una barista che sono sposati da quindici anni, e qui le cose si complicano: sta raccontando una balla? Oppure è vero? I due non parlano più amabilmente; discutono, litigano, come coniugi sull'orlo della separazione si accusano reciprocamente di incomprensione e insensibilità; la storia del loro preteso matrimonio sembra inverarsi sempre più, finché si ritrovano in una stanza d'albergo "come ai vecchi tempi", ma non si capisce se sia la prima volta o l'ultima di una serie. Lei gli sollecita il ricordo di un passato forse vero o forse solo inventato, per gioco o per chissà che altro; e la smemoratezza di lui può essere, a scelta, frutto di oblio o di semplice insussistenza dell'oggetto. E invece che calarsi nel letto da cui lei lo invoca, lui infine si chiude nel bagno, e un interminabile sgocciolio dichiara che sta impietosamente urinando. Sfinimento dopo quindici anni di matrimonio, o esitazione di fronte alle estreme conseguenze di una recita non più tanto intrigante? Un bel rebus, anche perché il regista ci porta fuori strada con indizi non tutti compatibili (come sarebbe in un buon giallo) con entrambe le soluzioni. E di certo lo fa volutamente, come a dire che nella vita, e forse anche nell'arte, vero e falso non si elidono a vicenda ma si compenetrano sopravvivendo l'uno all'altro in un quadro di ineliminabile, e creativamente feconda, contraddizione.
Tutto giusto, tutto interessante. Ma qui va messo un punto. Anzi molti puntini sugli "i".
Per prima cosa, il tema vero/falso, originale/copia nell'arte non è solo antico come dice anche il protagonista del film, ma se possiamo permetterci, anche abbastanza inconsistente. Il critico-teorico dell'arte del film si muove fra concetti enormi, scrive sui massimi sistemi, ma tanta teoria non sembra compatibile con la pratica attuale; insomma, il personaggio appare subito poco credibile e temo che un vero critico d'arte esca dalla sala irritato da un'indigestione di ingenuità.
Poi dobbiamo parlare della noia. Negli ultimi tempi, ci dicono, Kiarostami si è dedicato molto ai cortometraggi. E si sente!, verrebbe da dire: Copia conforme è un film più breve del normale, ma nonostante questo soffre di innegabili lungaggini in più di una fase: la scena iniziale della conferenza, che poteva essere solo accennata; la pur bella scena dell'auto sul cui parabrezza scorrono riflessi i palazzi toscani... ma quanto durano, e perché? - per non dire delle conversazioni fra lui e lei, che si avvitano per lunghi minuti senza progredire verso alcuna meta.
Un commento a parte merita l'ambientazione: una Toscana di maniera, una Lucignano turistica, effetto questo non a sufficienza smorzato dalla totale assenza di colonna sonora (l'insopportabile fisarmonica, che snocciola 'O surdato innamorato nell'improbabile festa matrimoniale in piazzetta, annulla del tutto l'efficacia della rinuncia). Né l'effetto Turisti per caso è vinto dal pur apprezzabile pudore del regista, che inquadra oggetti, palazzi e statue solo di sfuggita, di riflesso, per sottrazioni furtive dallo sguardo intimo dei protagonisti. La "maniera", purtroppo, sbuca fuori da ogni parte, come a sottolineare l'abbraccio mortale fra un regista iraniano, fresco, di qualità, e il mediocre sottobosco della coproduzione italiana (perfino la Regione Toscana è coinvolta, e allora come immaginare un film non celebrativo?): basti pensare ai tipi umani quasi da neorealismo post litteram. Come la barrista, sì, con due erre, che in un toscano affettato dispensa perle di saggezza popolare, o il figlio di lei che parla con lo smartphone sempre acceso (ah, ci mancava, al cinema!) e ci cosparge di indizi fallaci su sua madre, litigandoci e conquistandosi la palma assoluta dell'antipatia.
Ma detto tutto questo, va detta ancora la cosa principale. Se vuoi fare un film per raccontare una storia, allora l'azione sarà essenziale; se invece, come qui Kiarostami, ne vuoi fare uno che svisceri un determinato argomento, decisivi saranno i testi. Dato infatti il tema, devi riempirlo con dei contenuti che a) tengano lo spettatore sveglio e b) iniettino sangue vivo sul corpo del soggetto; altrimenti il soggetto resterà un cadavere freddo sul tavolo autoptico. E qui il regista sembra preoccuparsi molto del tema a lui caro, ma molto meno dei dialoghi, delle parole. Volutamente? Non è sufficiente giustificazione. E nell'essere i dialoghi brutta copia (non conforme) di quelli di altri film, di altri romanzi, di altra letteratura, sta la colpa fondamentale di questo pur raffinato filosofo del grande schermo.