martedì 30 novembre 2010

VIENI VIA CON ME (serie TV con Fabio Fazio e Roberto Saviano, Rai3 2010)

Come sarebbe bello poter parlare bene di Vieni via con me! Lo vorrei sinceramente, e me lo consiglierebbero la formula innovativa, la ricerca di serietà (per certi versi premiata dal risultato), la sobrietà gestita come un valore, la simpatia - tutto sommato - del cerimoniere Fabio Fazio, la voglia finalmente di contrapporre qualcosa di efficace, qualcosa capace di fare ascolti, alla moda delle squinzie di una certa TV mediasettina, ma non solo, completamente disimpegnata (non dirò di destra, quella non è né di qua né di là). Lo attesta perfino uno che non ti aspetteresti mai, come Vittorio Feltri: qualcosa di nuovo c'è, dice, e si vede; che gli altri imparino, per una volta.
Dunque vorrei, ma non posso. La stima e l'apprezzamento iniziali si frantumano via via che la trasmissione va avanti. E' così tutte le volte: si comincia pieni di attese e si finisce per cambiar canale prima della fine, quando ormai l'irritazione ha preso il sopravvento.
E' abile questa cosa degli elenchi: una trovata in sordina che però ha un tocco di stile. Potrebbe fornire l'asciuttezza necessaria a parlare in TV di cose importanti. Potrebbe essere lo stile giusto per ridare fiato a idee e slanci ridotti un po' nell'angolo dall'andazzo generale, per piegare la televisione a temi e sollecitazioni più elevati, per gettare il velo delle veline e provare a andare a fondo.
E invece? Invece prevale la solita retorica. Si chiamano figli di vittime a dire che dei genitori morti mancano loro il sorriso, gli sguardi, e simili cose verissime, per carità, ma che in TV non si possono dire senza scadere in un ammiccante sentimentalismo. D'altra parte è proprio il mezzo espressivo, la TV, che non tollera certe cose. Bisognerebbe dirglielo, farsene una ragione, capire che alla giusta causa, e alla dignità dei figli e delle vittime stesse, la lacrimuccia non porta alcun aiuto. Si mandano i poveri figli innocenti, oppure i protagonisti del volontariato vero, quello silenzioso, allo sbaraglio su un terreno non loro, in un'esibizione circense senza rete alcuna. Che vergogna!
Le liste, poi, da essenziali si fanno sempre più discorsive (don Ciotti docet), perdendo il loro carattere di nobile e sobria testimonianza. E perdendo sempre più di efficacia, senza colpa dei poveretti che le recitano, palesemente impreparati a gestire il mezzo. Gli autori avrebbero dovuto guidarli, spiegare loro quanto possa pagare riuscire a restare calmi nella narrazione delle peggiori avversità, generosi verso gli avversari, obiettivi anche quando ti hanno colpito negli affetti più cari. Avrei voluto che facessero loro rileggere un vecchio libro come Le mie prigioni di Silvio Pellico, ma anche Se questo è un uomo di primo Levi. Dove la ferocia, la crudeltà, l'ingiustizia non sono giudicate ma solo descritte, e il giudizio morale emerge in ogni lettore come una conquista propria, intima, privata, per restarvi durevolmente.
Invece no: perfino una persona serissima come il Procuratore Nazionale Antimafia Grasso rischia di sputtanare la sua ammirevole e coraggiosissima battaglia per la legalità infarcendo la lista di pistolotti, molti dei quali anche politicamente orientati. Chi l'ha aiutato a capire il mezzo televisivo di cui stava servendosi? Chi l'ha guidato? Nessuno, l'hanno lasciato solo in balìa di nove milioni di spettatori.
E Saviano? Un aspirante divo. Peccato, perché alla vanità che lo contraddistingue sono associate, ne sono convinto, anche buone intenzioni. Ma la vanità prevale: dagli occhi che guardano sempre in alto con aria ispirata, alle pause celentanesche, dense di significati, al tipo di inquadratura... tutto, fin dalla scelta di esprimersi in forma di "sermone", è finalizzato alla creazione di una star. Anzi di un sacerdote, di una vestale. La quale sciorina dati non sempre veri, spaccia qua e là opinioni per dati di fatto, prestando il fianco a critiche da chi non aspettava altro.
Ma il problema peggiore, che non è solo di Saviano ma di tutta la trasmissione, è un altro. Qualcuno mi dica se ha ascoltato una proposta, anche una sola, su "che fare". No, ci si crogiola snocciolando le brutture, elencando i disastri, additando responsabilità e colpe, quasi lucrando sulle malefatte, sulle disgrazie (con aria, me ne scuseranno, perfino vagamente iettatoria), ma non una parola su che cosa loro avrebbero fatto o propongono di fare. Beh, un po' comodo, anche perché allora l'obiettivo da raggiungere non sembra più tanto la soluzione dei problemi, quanto piuttosto l'alto gradimento, lo share, come si dice, e la fama. Ahimè, anche loro!
Ma sì, l'idea di fondo c'è ed è giustissima, ovvero che la mafia non si batte con (o solo con) la polizia e i giudici, ma piuttosto con la diffusione dell'impegno personale e della cultura della legalità. Giustissimo, ma come fare? A trasmissione conclusa, non ne abbiamo ancora idea.

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