domenica 20 giugno 2010

LA NOSTRA VITA, di Daniele Luchetti, 2010

Non tutti i film italiani sono brutti; ma tutti - o quasi - devono pescare le loro storie in situazioni di disagio, ambienti degradati, periferie sconsolanti, problematiche di emarginazione o di diversità... Perché? D'accordo, l'Italia è anche questo; e una volta forse raccontare il brutto, lo sporco e il cattivo era un merito: implicava un difficile andar contro corrente. Ma siamo sicuri che, con l'andare degli anni, non sia diventato anche troppo comodo? Raccontare storie tristi o squallide sembra oggi molto più facile: sollecita coperture politiche forti, solletica il senso di colpa di certi ambienti che contano; ed inoltre, il degrado, l'ambiente sottoproletario, giustificano appieno il comodo ricorso a certi slangs dialettali romaneschi che non necessitano di scuola di dizione, né tantomeno di accademia di teatro. Mentre se devi costruire una commedia, magari di ordinaria borghesia, devi mettere in campo risorse interpretative che non tutti gli attori italiani possiedono. E poi il dolore paga più della felicità, al cinema come in letteratura. Vuoi mettere.
E così, ecco l'ennesimo filmetto italiano dal budget striminzito. L'ambientazione? Una banlieu che stringerebbe il cuore a un redivivo Pasolini. Il mare? Una terrazzetta su una spiaggia vuota. I protagonisti? Gente che vive nel ristretto orizzonte che gli è capitato, mai la testa fuori. I soldi? Sempre mancanti, fra cravattari e bustarelle. Le tasse? Mai pagate da nessuno, fare nero è un vanto. Il lavoro? Va sempre male, si fanno case che sono dei colabrodi. Il clima? Piove quasi sempre, e non sulla favola bella, ma sullo scalcinato impiantito di un cantiere fatiscente. La storia? Lui e lei sono felici, due bambini e un terzo in arrivo; si amano teneramente e fisicamente nonostante il pancione (ah, che banalità le trovate per ritagliarsi intimità lasciando i figlioletti fuori della porta!); ma poi lei muore di parto. Un dolore atroce per lui, che però cerca il riscatto sul lavoro. Vuol garantire ai figli un futuro migliore, e dunque rischia grosso: prende un subappalto, ci mette tutto quel che ha e quel che un vice-cravattaro buono (l'irriconoscibile Luca Zingaretti) gli fa avere. Ma le cose non sono mai facili: il lavoro va a rilento, i soldi vanno restituiti, a Zingaretti sfasciano la casa... Bisogna ricorrere ai familiari, che in uno slancio di generosità donano tutto, anche le sterline d'oro della mamma morta (ma com'è forte la solidarietà, fra poveri per bene!). Non basta, non basta! La casa in costruzione sta per crollare, gli operai senza stipendio si ammutinano, il disastro è vicino. Per di più lui è costretto a confessare a un grassoccio ragazzo rumeno di aver taciuto sulla morte di suo padre in cantiere.
Ma poi, un deus ex machina irrompe sulla scena sotto forma di una ditta di Frosinone, pensa un po', che in tre giorni finisce il lavoro garantendo al protagonista, e agli spettatori saturi di disgrazie, un lieto fine appiccicaticcio.
Modeste vicende di un mondo ai margini. Ma perché continuare a lavorarci attorno, intendendo conferirgli (ma senza riuscirvi quasi mai) una dignità artistica? E a proposito di arte, non è infrequente nella cinematografia anche straniera adottare una canzone come leit-motiv della storia. Ma si può fare in tanti modi. Il peggiore è quello scelto da Luchetti: presumere che siamo tutti stregati da Vasco Rossi, trattare una sua modesta canzonetta come se fosse un mito super partes, pensare che basti da sé a commuovere tutti noi spettatori (non solo il protagonista). E così farla cantare a squarciagola agli attori perfino come ode funebre durante il funerale della sposa. Peccato che la canzone non sia un capolavoro. Luchetti evidentemente adora Vasco Rossi ma non si accorge che la sua è appena un'opinione, ben altri sono i miti in grado di reggere un ruolo come quello che lui vorrebbe attribuirgli. Ricordate la poesia funebre letta durante Quattro matrimoni e un funerale? Fermate gli orologi, tagliate i fili del telefono e regalate un osso al cane, affinché non abbai. Faccia silenzio il pianoforte, tacciano i risonanti tamburi, che avanzi la bara, che vengano gli amici dolenti. Lasciate che gli aerei volteggino nel cielo e scrivano l'odioso messaggio: lui è morto. Guarnite di crespo il collo bianco dei piccioni e fate che il vigile urbano indossi lunghi guanti neri.... (ecc.) Quella sì...; ma non era Vasco Rossi, era Wystan Auden!
Si è poi premiata la bravura del protagonista, si è apprezzata in generale quella di tutti gli attori, e in effetti c'è del buono; ma sempre in un ambito di spontaneità espressiva, come prima dicevo, che trae linfa dal vissuto, non certo da scuola e applicazione.
Finché il cinema italiano resterà così naif e ideologicamente orientato, mai sarà in grado di competere.

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