sabato 15 ottobre 2011

La pelle che abito (film) di Pedro Almodovar, Spagna 2011

Chi va a vedere un film di Pedro Almodovar lo fa sempre a suo rischio e pericolo. Si sa, al regista spagnolo piacciono le situazioni estreme, le trame avviluppate, i personaggi psicopatici, i colori forti e contrastati. Dunque non dovrebbe sorprendere questo La pelle che abito, con un Antonio Banderas in veste di chirurgo pazzo, alias Frankenstein per nulla junior.
Invece c'è da rimanere di sale per la delusione. Questa volta, infatti, la ricerca spasmodica di tutto quanto possa dare scandalo si traduce in scene e storie inverosimili e insostenibili. Ciò che viene urtato, beninteso, non è solo il buongusto, anche se talvolta dovremmo tornarci un po', a quel senso della decenza che pare perduto. No, è anche il senso del ridicolo. E com'è noto, la risata non prevista dall'autore, a sua insaputa, è la peggiore delle iatture per chi fa opere d'arte, o presunte tali.
Difficile riassumere la storia, arzigogolata com'è: un chirurgo pazzo vive con una domestica che in realtà è sua madre. Sia la moglie che la figlia (pazza anche lei, ca va sans dire) sono morte suicide anni prima. Ma per la morte della figlia lui incolpa un poveretto che lavora in un negozio e fa il filo alla collega commessa, peraltro lesbica.... A una festa, infatti, il ragazzo aveva tentato un approccio con la figlia del chirurgo la quale, già in terapia, era rimasta sconvolta, fino appunto a suicidarsi dopo un passaggio in una assai improbabile clinica psichiatrica.
Il chirurgo nasconde in una supertecnologica cantina una sala operatoria completa, ma soprattutto tiene segregata una bella figliola dai lineamenti ancora instabili ma ormai quasi pronti, e soprattutto una pelle extrastrong di sua invenzione, ultimo atto di una plastica facciale e corporale con cui il chirurgo ha riprodotto nientemeno che le fattezze della moglie. La quale, prima di ammazzarsi definitivamente, era rimasta gravemente ustionata in un incidente mentre scappava col di lui fratello, un altro suonato come una campana che a un certo punto irrompe nel film vestito da tigre, con tanto di baffi e coda.
Con uno dei vari trasferimenti temporali e flashbacks del film, si finisce per capire che la prigioniera belloccia altri non è che il povero commesso, per vendetta opportunamente deprivato degli attributi e trasformato, in sei anni di interventi, in una ragazza fatta e rifinita, nonché sosia della moglie morta. Col difetto, però, che il sesso le provoca dolore. Che il chirurgo abbia sbagliato qualcosa? E sì che glie lo aveva detto, dopo la resezione, di infilarsi una serie crescente di dilatatori (in bella mostra nel film, dal più piccolo al monstrum)....
Segue sindrome di Stoccolma, con innamoramento fra vittima e aguzzino, nonché realizzazione, evidentemente, di un desiderio di sesso uomo/uomo al massimo del travestimento e della trasposizione: maneggiare cioè una femmina, sapendo però che è un maschio. Ma poi, il finale è un altro.
Come si fa a reggere una simile montagna di sciocchezze senza ridere? Soprattutto se la storia si svolge in un ambiente insopportabilmente patinato, fra macchine supersportive, villa signorile, apparecchi medicali futuribili (a proposito, la storia si svolge nel 2012, tanto per evitare obiezioni di assurdità tecnica).
Non c'è dunque bisogno neppure di scomodare il buongusto, per stroncare senza appelli questo film: basta metterne in risalto il ridicolo involontario, quando ci si rende conto che dagli ammiccamenti sapidi dei primi films, Almodovar è passato a modi e registri da melodramma nudo e crudo, senza autoironia alcuna e dunque del tutto indifferenti al mondo, spettatori compresi. Almodovar insomma ha imboccato una deriva che dalla facilità narrativa degli esordi, ricca di una sua vena quasi dadaista, bunueliana, lo ha condotto ad esiti dove nessuno può seguirlo rimanendo serio, dove lo sfogo alle pulsioni, il crogiolarsi nel raccapriccio prendono la forma di un monologo talmente solipsistico, autoreferenziale e autocompiaciuto da risultare privo di riferimenti concreti, pur nell'esagerata abbondanza di citazioni cinematografiche. C'è da domandarsi, di questo passo, a che cosa si spingerà col prossimo film!
Quanto a me, non sono sicuro che andrò ad accertarmene.

mercoledì 10 agosto 2011

La fine è il mio inizio (film) di Jo Baier, Germania/Italia 2011

Immaginate di leggere un romanzo che descriva un tizio intento a raccontare la sua vita, ma che non vi faccia sapere che cosa il protagonista sta raccontando. Che ne descriva le espressioni, la faccia, la corporatura, i malanni, le manie, tutto ciò che gli gira attorno, ma senza mai rivelare quel che sta dicendo. Ebbene, La fine è il mio inizio è un po' così. Dall'inizio alla fine (pardon per il gioco di parole) vediamo solo un vecchio e malato Tiziano Terzani, il grande giornalista toscano, interpretato da Bruno Ganz, già condannato dal tumore, che racconta al figlio la propria vita; ma mai un flashback, mai un'immagine dei tanti viaggi in tutto il mondo, no: soltanto il vecchio nel suo buen retiro in cima alle montagne del Pistoiese, il figlio e la moglie.
Al principio ci si aspetta molto: le immagini sono tutto sommato intriganti e chissà che cosa dovrà capitare: in fondo, è la vita di un uomo fra i più avventurosi del nostro secolo, uno che ha passato anni fra Cina e Tibet, uno che le vicende storiche non le ha apprese dai telegiornali ma le ha vissute in prima persona, uno che ha sentito il botto delle bombe e l'odore acre dell'esplosivo, uno che ha parlato a tu per tu con i potenti del mondo.
E invece i minuti passano e il povero Terzani è sempre e solo inquadrato impietosamente nella sua poltroncina di invalido, lungo i quattro passi che lo separano da una specie di pergolina dove parla a un registratore maneggiato dal figlio. Parla, e il racconto già molto slavato è condito di sentenze improbabili, massime d'accatto, commenti da bar sport sul comunismo, sulla natura umana, sui rapporti fra i popoli, sulla guerra e chi più ne ha più ne metta. Ma che bel servizio a Tiziano Terzani! Perché se anche, forse, non sarà stato un politico raffinato né un filosofo né un sociologo (non erano mestieri suoi!), tuttavia è stato un ottimo giornalista, scrittore, narratore; e più ancora è stato un uomo d'azione, uno che si trovava nei posti giusti al momento giusto. Certo, qualche battuta poco felice sulla crisi delle ideologie l'avrà anche fatta distrattamente, come ognuno di noi canticchia facendosi la barba; ma non per questo saremmo disposti a farci macinare nel tritacarne dello spettacolo con le nostre performances! Lui invece lo triturano ben bene, senza ritegno alcuno; e invece di mostrarcelo nel vivo dei fatti, come è stato tutta la vita, ce lo rappresentano vecchio, stanco, malato, invalido, immobile, debole di pensiero..... E infine padre egocentrico e prevaricatore, che solo in articulo mortis cerca di dare un ruolo a un figlio che per vivere una vita decente ha dovuto fuggire dalle sue bravate (compresa quella di farlo studiare in una scuola di Stato cinese, tanto per fare, lui, il diverso!).
Quanto siamo affezionati all'arguzia, all'intelligenza e alla sensibilità istintiva di Terzani, tanto siamo portati a ridere di un film incapace di afferrarne e riprodurne la grandezza. Un film che aspira alla poesia e ambisce a commuovere, ma rimane invischiato in un'aria di tentativo fallito. Più ancora, volendo essere un po' dietrologi, è come se al figlio di Terzani (collaboratore alla regia) fosse scappata un'involontaria postuma vendetta per le angherie subite in gioventù, nella scia di tutti i figli di cotanti padri.

sabato 18 giugno 2011

Le donne del sesto piano (film) di Philippe Leguay, Francia 2011

Ecco un'altra commedia francese, e quando i francesi ci si mettono, con le commedie, solo raramente sbagliano. E poi, è come se la francesità in quanto tale (pardon per il neologismo) aggiungesse gusto ai film, li rendesse più accattivanti. E così Le donne del sesto piano è piaciuto a molti, anche fra amici che spesso condividono le mie stroncature...
Questa volta, però, secondo me diverse cose non tornano.
Caro regista, avresti dovuto fare delle scelte: se il tono è grottesco, la vicenda sentimentale c'entra come il cavolo a merenda; se invece la tua è una storia d'amore, che senso ha pigiare continuamente sul pedale di una certa comicità caricaturale?
Mi si dice che la materia è divisa in due: il grottesco riguarda i sepolcri imbiancati dell'alta borghesia parigina anni sessanta, mentre l'amore riguarda le anime semplici; e che il motore della storia nasce dal contrasto, nell'imprevedibile incontro di una persona semplice (che per il regista equivale per défault ad anima semplice) con un borghese, sì, ma dall'anima a sua volta sorprendentemente semplice.
Anche se, a dire il vero, la semplicità del nostro (un bravo Fabrice Luchini) si esprime in gesti e atteggiamenti anch'essi assai grotteschi, come la mania dell'uovo alla coque.
La semplicità di lei, emigrante spagnola in una Parigi anni '60, ne ha fatto in passato la vittima di un padrone scellerato, che l'ha resa madre anzitempo e fuori luogo. Ma si rispecchia e si nutre nella semplicità e bontà naturale di tutte le colleghe, salvo che le altre sono una più brutta dell'altra mentre lei (Sandrine Kiberlain) è davvero bellissima. Ma una menzione a parte merita la zia, interpretata da una Carmen Maura (Almodovar ecc. ecc.) che non esiterei a dichiarare ancora bella, nonostante l'età.
Dunque, mi si dice, satira feroce contro una classe sociale usurpatrice, ma commossa partecipazione verso le derelitte dal cuore grande così. Eppure non è così, e non lo è perché il quadretto delle domestiche spagnole è totalmente stereotipo e l'unica lettura che può reggere, anche per questa parte, è quella caricaturale, magari non corrosiva ma pur sempre "dall'alto". Come potremmo giudicare i ritratti di genere, le leziosità, i cuoricini infranti, gli aneliti da agiografia, se non col metro del comico?
Ecco però che spunta la storia d'amore: nasce e ti chiede di esser presa sul serio, di imporsi come autentica e non certo comica. Ma allora? con che occhi guardare? Con quelli scafati del dissacratore o con quelli commossi del tenerone? Il regista non ce lo dice e il film rimane un po' a mezzo, sospeso in questo spiacevole dilemma.
Per di più, che storia d'amore è mai questa, quale può essere la credibilità di una vicenda dove lui, già verso i sessanta con pancetta incorporata e barba grigia, insidia lei poco più che ragazzina? E' più il senso di fastidio, vorrei dire quasi di indignazione, che la commozione; e il presunto sentimento, pur emerso in un'anima semplice, appunto, non ci toglie il sospetto che si tratti di una delle solite infatuazioni del padrone in vena di onnipotenza per la domestica vittima. E gli ingredienti per sospettarlo ci sono tutti, compresa una sessione voyeuristica con lei ignara nella doccia. Per cui il lieto fine appare come un qualcosa di posticcio, quasi una concessione a un pubblico più ampio, quello che prende sul serio i romanzi d'appendice, e finisce per non convincere né gli uni né gli altri, o almeno finisce per non appagare me, vostro incontentabile interprete.

domenica 17 aprile 2011

HABEMUS PAPAM (film) di e con Nanni Moretti, Italia 2011

"Verosimiglianza", si legge nei dizionari, è la caratteristica di ciò che è simile o conforme al vero. In tribunale, il giudice è tenuto a valutare la verosimiglianza dei fatti riportati da un testimone. Se stiamo leggendo il giornale, è giusto sorvegliare che l'articolo riporti fatti veri e non inventati o distorti, e ciò si fa usando anche il criterio della verosimiglianza.
Al cinema è tutta un'altra cosa perché nessun film, salvo quelli che se lo propongono volontariamente, è tenuto a raccontare il vero. Anzi, la narrazione è di per sé arbitraria e in larga misura "deve" riflettere il punto di vista personalissimo degli autori. Altrimenti, non sarebbe arte.
Eppure, esiste a mio avviso un concetto di verosimiglianza anche al cinema, se pur di tipo diverso. E' quello che ti fa accettare i fatti narrati, anche se dichiaratamente inventati, senza obiezioni, senza farti esclamare: "che stupidaggini!". Certe volte i fatti sono talmente assurdi che, fuori della sala cinematografica, li bolleresti immediatamente come follie o fandonie; ma nel buio di un cinema tutto cambia. E così generano stupore, ma si fanno accettare per come sono, le cose più sbalorditive: per esempio l'impossibilità degli ospiti di varcare la soglia di casa nel Fascino discreto della borghesia di Luis Bunuel. Il collante che li sorregge non è sempre lo stesso: può essere l'effetto poetico, ad esempio in Otto e mezzo di Fellini, o un certo richiamo a simboli condivisi, o tanto altro. L'importante è che un collante ci sia, e funzioni.
In Habemus Papam questo collante non c'è. Le stranezze non risultano "verosimili", nel senso che ho detto. Cardinali che giocano a pallavolo, papi che fanno i mistery clients nei grandi magazzini, psicanalisti in conclave... non voglio negare a un regista imaginifico la facoltà di metterceli in scena; dico però che a Nanni Moretti manca il fiato e nulla di ciò che vediamo, francamente, appare credibile.
La storia è semplice: un novello Celestino Quinto, interpretato da un ottimo Michel Piccoli, una volta eletto al soglio di Pietro va in tilt e rifiuta di affacciarsi al balcone. Panico generale. Viene assoldato uno psicanalista (Nanni Moretti stesso), ma il papa fugge e girovaga per Roma, soprattutto in àmbito teatrale, fra le prove di una pièce cechoviana. Fino al ritorno in Vaticano e al finale annunciato.
Le scene più belle del film sono quelle iniziali, quando i cardinali in conclave, anziché (come ci si attenderebbe) ambire alla nomina, pregano tutti in silenzio di non essere eletti. "Non me, ti prego!" sussurrano a Dio i poveruomini, tutti - anche i più "papabili" - schiacciati dal senso di inadeguatezza. E i sussurri, nella finzione cinematografica, si assommano, si avvitano fra loro fino a diventare un coro di grida disperate. Qui Moretti dà prova di una vis critica che non è solo caustica e distruttiva, come spesso gli accade, ma per una volta ricca di pietas e di umanità. Frutto forse di personale ammirazione per il Papa santo? Le scene iniziali del film, scene vere del funerale di Woytila, sembrano suggerirlo, ma non possiamo esserne sicuri.
Poi però sulla scena irrompe lo psicanalista Moretti con la sua fastidiosa sicumera, non recitata ma proprio sua personale, con quella parlata supponente, da primo della classe, che gli viene tanto bene perché non deve costargli alcuna fatica. E tutto cambia: in men che non si dica il tono scivola dal solenne al ridicolo e tutti i personaggi regrediscono al ruolo di minuscole pedine dalle mosse prevedibilissime, in mano al regista deus ex machina. Le prudenze, i silenzi, le diplomazie vaticane sono messe alla berlina, ridotti a spunti di greve comicità: cosa fin troppo facile dalla prospettiva nichilista del nostro. E in barba ai divieti e alle costrizioni del luogo, Moretti diventa leader del collegio cardinalizio, spingendo questi alti prelati - scoperti nel loro lato indifeso e vulnerabile - a combinarne delle belle, compreso un torneo di pallavolo nell'austero cortile di San Pietro. Altro che ispirazione divina, dietro il Conclave. Moretti ce lo spiega: c'è solo un gruppo di poveri cristi incapaci di vivere e di capire, di godersi il dono della vita e di agire da uomini.
Un po' superficiale, direi. Avrà letto, il buon Moretti, qualcosa del Papa nuovo, del teologo Joseph Ratzinger? Si sarà reso conto della profondità di pensiero che soccorre certi personaggi? Ne dubito, così come dubito che Moretti sia il miglior giudice di riti antichi come quelli della Chiesa, di simboli affondati nell'essenza stessa dell'uomo, o se si vuole nella sua divinità, di gesti forse miseri se confrontati con l'eterno, ma che l'eterno intendono richiamare. No, Moretti non c'entra nulla, e il suo film ne è la miglior dimostrazione.
E sia detto per inciso, questo primino della classe (che peraltro si rende conto di esserlo e sembra addirittura un po' soffrirne, ma solo a tratti) si pappa in un boccone anche la psicanalisi, mettendone in ridicolo diagnosi vuote e terapia inconcludente. Solo lui conta davvero; Dio e l'umanità intera, con le loro debolezze, sono carne di porco nel macinino, meri ingredienti della magistrale sachertorte di Moretti.
Spunti suggestivi certo non mancano, come ad esempio il parallelismo fra rito religioso e recita teatrale: un filone che meriterebbe approfondimenti (e che nuovamente richiama il Woytila giovane, che fu attore in teatro). Ma nel complesso la prova non appare proprio riuscita e quando una prova non riesce tante cose vanno storte. Perfino il montaggio è molto confuso: ci sono scene non collegate fra loro (l'incontro fra il segretario di stato e il neoeletto papa ai Fori imperiali non è annunciato e si fa fatica a capire che si devono esser dati appuntamento; i cardinali che irrompono in teatro durante la rappresentazione e iniziano ad applaudire al Papa, che è in incognito in un palco: perché tutto il pubblico lo applaude? chi li ha avvertiti?, E perché il pazzo che recita Cechov e viene internato lo ritroviamo poco dopo sul palcoscenico ed è un attore vero? ecc. ecc.).
Alla fine del film rimane la grande interpretazione di Michel Piccoli e la forte impressione per quel finale con il balcone e la finestra vuota, le tende che si agitano al vento e, dietro, soltanto il buio. Un'immagine molto inquietante e direi da manuale di regia, ma troppo poco per dar vita e senso a un film che, per l'idea di partenza, poteva essere molto di più, ma avrebbe avuto bisogno di altri autori, di un altro regista.

domenica 10 aprile 2011

C'E' CHI DICE NO (film) di G.B. Avellino, Italia 2011

Inizierò con un accorato appello ai registi italiani: quando ambientate un film a Firenze, per favore prendete attori con l'accento fiorentino. Perché nei film romani si parla romanesco e in quelli fiorentini un'assurda storpiatura? Prendete ad esempio il titolo del film. Invariabilmente l'imitatore lo pronuncerà più o meno "sc'è hi disce no", pensando - sulla scia della famosa "hoha hola halda hon la hannuccia horta" - che tutte le c vengano aspirate. Ma non è così, non è così. Eppure, a Firenze gli attori non mancano mica, da Benigni in giù. Ne abbiamo perdonate tante, noi fiorentini: ci fu il Geppetto televisivo di Nino Manfredi, per dire, o il Tognazzi di Amici Miei, e glie le perdonammo perché erano dei grandi attori. Nel caso della Cortellesi, non vedo proprio perché dovremmo.
Ma vengo al film. Tre vecchi compagni di scuola si rincontrano. Uno è un giornalista precario, lei è un medico ospedaliero e il terzo un contrattista universitario. Tutti e tre dovevano "passare di ruolo" e invece sono stati scartati a favore dei soliti figli o nipoti di papà. Vittime di ingiustizie professionali, della parentopoli e del malcostume, decidono di ribellarsi e lo fanno usando le armi che i registi di second'ordine ormai appiccicano per défault ai toscani, appunto da Amici Miei in poi: lo sberleffo, lo scherzo al telefono, il pan per focaccia. Il clima è ancora quello delle "zingarate", ma più incerto e meno riuscito. La caratterizzazione dei personaggi non si scosta di un nanomillimetro dai banali cliché della satira all'italiana. Sembra di assistere alle commediole in vernacolo che andavano nei teatrini di quartiere di Firenze tanti anni fa, con il nobilastvo che pavla con la evve, e così via.
Non manca la straniera che, disgustata dall'italietta, si ribella ai metodi da mafia della sua nuova famiglia; però, però... il marito brutto, ricco e raccomandato se l'era sposato. Possibile che non si fosse accorta di nulla e che ci sian voluti gli scherzi dei nostri per farle aprire gli occhi?
Albertazzi fa la parte del rettore universitario corrottissimo, anzi il capo dei maneggioni, ma almeno intelligente. Dopo di lui il diluvio, gentuccia che neppure sa intrallazzare per bene, mezze figure che lasciano tracce imbarazzanti e non sanno stare al mondo. Certo, in confronto agli altri attori Albertazzi è un gigante, ma vien da chiedersi perché abbia accettato una parte, sia pure poco più di un cammèo, in un film così marginale.
Peggio che marginale, direi irritante. E la mia solidarietà va ai tanti veri discriminati, a quelli che non ce l'hanno fatta, i quali se andranno a vedere questo film scopriranno che la colpa è stata loro, perché "non hanno detto no". Tutto sommato il sistema che li ha schiacciati non era poi questo gran mostro. Bastava una telefonatina, una bombetta puzzolente ben piazzata: il barone sarebbe schiattato, e il posto liberato.
Ahimè non è così, naturalmente. Il sistema è antico quanto l'Italia, o forse quanto la civiltà. Anzi, oggi si è ancor più raffinato, consolidato; e non saranno certo le bravate di tre ragazzotti a metterlo in crisi. Del resto, al regista sembrano interessare assai poco gli aspetti di denuncia del suo film. Quel che gli interessa è la gag, lo scherzo, la faccia del professore davanti alla buca da piscina scavata sulla porta di casa sua, e via dicendo. Più che ad Amici Miei, in vari momenti sembra attingere alla comicità televisiva di Scherzi a parte. E non è un caso: dalla biografia del regista, ecco i suoi precedenti lavori: Casa Vianello, Crociera Vianello, Quelli che il Calcio, Pressing e, buon ultimo, il film di Ficarra e Picone. Potevamo attenderci altro?

giovedì 17 marzo 2011

IL CIGNO NERO (BLACK SWAN), film di Darren Aronofsky, USA 2010

"Film vietato ai minori di 14 anni", ammonisce il cartello all'ingresso del cinema. Eppure, è chiaro che il target di Aronofsky è un pubblico di imberbi. Imberbi e minus habentes, si direbbe. Che cosa si fa, infatti, con gli sprovveduti? Si deve spiegare tutto, sin nei minimi particolari. E così si affanna a fare Aronofsky con noi: già all'inizio, il direttore di una compagnia di ballo, interpretato da Vincent Cassel, si rivolge alle ballerine (ma indirettamente a noi) e riepiloga la trama del Lago dei Cigni. Ed è piuttosto ridicolo, visto che tutte le ballerine da che mondo è mondo crescono a pane e cigni.... (e guarda caso, le critiche al film delle ballerine di professione sono state più che severe).
E' in ballo la scelta della nuova étoile che interpreterà sia cigno bianco che cigno nero nella nuova messa in scena. Il direttore vuole dunque un'interprete in grado di essere a un tempo virginea e provocante, angelica e sulfurea. La scelta, quasi per irridente provocazione, cade su una poveretta (Natalie Portman), che per essere vergine lo è eccome, vittima di una madre possessiva e asfissiante, ma per essere anche seduttrice, per diventare cigno nero, di strada ne deve fare parecchia.
E così palcoscenico e vita vera si attorcigliano attorno alla neopromossa prima ballerina. Il fatto è che, pur bravissima, è troppo inibita: la madre, ex ballerina fallita, ripone in lei tutte le proprie ambizioni e la vizia tragicamente con attenzioni eccessive, enormi pupazzi di pelouche e perfino un carillon per addormentarsi. Troppo: ovunque si giri, Aronofsky calca la mano quasi dubitando che il pubblico possa non capire. E quando Cassel spiega alla Portman che avrà la parte solo se riuscirà a vincersi, le parole utilizzate sono esplicite che più esplicite non si potrebbe e le mani si allungano, tanto per ribadire il concetto, in parti assai intime della ragazza. A scanso di ogni equivoco.
Dunque vita e musica si confondono, e viene in mente un film del tutto diverso come Il Concerto; ma quello era un film magari non riuscitissimo ma di spessore, con vari registri, dal comico al drammatico... Qui invece tutto è soltanto maledettamente serio.
La prima del balletto incombe, le prove fervono e la ragazza è perfetta ma ancora algida. Chiaramente le manca qualcosa: il sesso. Per fortuna entra in scena una collega dalla sensuale femminilità che le scioglie nel bicchiere una certa polverina evidentemente molto, molto effervescente. Le inibizioni crollano d'un colpo, assieme al rispetto per la madre bacchettona. Nel locale notturno, dove le due imbroccano altrettanti ragazzotti, i bagni sono fatti per accoppiamenti frettolosi e voraci, sotto l'effetto delle pasticche e dell'alcool; ma loro finiscono a casa e sbarrano l'uscio alla mamma, dopodiché una scena saffica lascia, anche qui, ben poco all'immaginazione. Salvo poi scoprire che era tutto un sogno. Già perché, oltre al sesso, alla ragazza manca anche qualche venerdì: le allucinazioni si confondono con la realtà e ciò che si vede non sempre accade davvero. E' così che il regista ha modo di esagerare un'altra volta: succo di pomodoro a sfare, accoltellamenti, suspence ovunque a profusione, tanto per non lasciarci, neppure qui, dubbio alcuno; e poi palate di psicanalisi d'accatto, fra conflitti con la madre e l'autolesionismo di una poveretta che si spella le unghie e la schiena per farsi del male.
E così l'iniziazione della ballerina, la sua ascesa al genio artistico non passano, come il direttore mandrillo aveva inteso, dall'emancipazione sessuale, ma dal dilagare della follia.
Finisce con l'apoteosi della "prima", con lei che conquista il pubblico con una incarnazione del cigno nero non soltanto tecnica ma integralmente fisica, tanto che dalle spellature le escono piume nere e lei, danzando, si trasforma in un cigno color catrame. Par di rivedere La mosca, quel film di tanti anni fa dove il protagonista scienziato, per un errore, si trasformava via via in un orribile insetto, con tanto di setolacce nere. Ma lì sì che c'era vera angoscia!
Qui invece si ride, parola mia: ridevo io ma ridevano anche altri in sala, quando non occupati a tapparsi gli occhi di fronte all'attrice che si strappava le unghie, le piume e cose del genere. Ridevano sì: magari non i minus habentes in target; ma gli altri, quelli che non sentivano voglia di imparare alcunché da questo regista, non potevano proprio trattenersi.

domenica 16 gennaio 2011

La bellezza dell'asino (film), di e con Sergio Castellitto

Non ho parole, lo confesso. Ieri sera non vedevo l'ora di uscire dal cinema e adesso mi manca la voglia di occuparmi di questo inutile e insopportabile film.
Ricavato da un soggetto di Margareth Mazzantini, scrittrice di successo e moglie dello stesso Castellitto, il film è un impasto colloso di luoghi comuni, umorismo a buon mercato e veri e propri ricalchi da altri film.
Castellitto, nella veste di attore, è un architetto romano evidentemente di successo: grande casa, bella moglie e bella macchina. Le sue spine nel fianco sono una figlia diciassettenne che cerca di districarsi dall'abbraccio asfissiante suo e della mamma (sbaglierò ma mi sembra di averne già sentito parlare) e una governante polacca che sembra un ufficiale delle Schutzstaffen. Dimenticavo, l'altra spina è l'età: ossessionato dai cinquant'anni cerca di allontanare da sé lo spettro dell'invecchiamento. E ce la mette tutta, poveretto: si fa l'amante, solleva pesi, si veste da giovanotto.... una patetica macchietta, lui con i suoi due sodali e coetanei, ognuno coi suoi tic e le sue miserie. Tutto patetico, anche l'incapacità degli autori di scrivere qualche dialogo decente.
La moglie, una Laura Morante sempre fotocopia del film precedente, fa la psicanalista. E giù con le solite tiritere sull'inconscio, sui pazienti che adorano calarsi i pantaloni, sulle terapie, sulle nevrosi dello stesso terapeuta. Tutta ottima materia per sketches pseudo-comici e battutacce... Figuriamoci se mi metto a difendere la psicanalisi, con l'opinione che ne ho; ma a vedere il film quasi mi vien voglia di farlo!
La figlia cerca scampo da simili genitori in rifugi estremi (droghe escluse, beninteso: qui siamo nel politically correct ed anzi è il padre a farsi di spinello e lei a deplorare, ma che brava!). Alla fine porta a casa un inebetito Enzo Iannacci in veste di fidanzato settantenne, che è il motore (immobile, per la verità) della trama. Uno scandalo! I genitori strabuzzano gli occhi e danno di matto.
Lo scandalo però, e questo aiuta, capita in una gran villa di campagna, mi sembra in Umbria tanto per essere originali, dove i "coniugi Castellitto" hanno radunato, ma guarda un po', tutti i personaggi precedentemente visti nel film, compresi i pazienti pazzi di lei. Così da fornire in abbondanza situazioni presunte comiche.
Il tutto mentre un asino solitario, dal campo di fronte, sta lì a fare le cose sue, ovvero niente.
Genitori inetti e autoreferenziali, psicanalizzandi cretini, figli e figliastri ebeti o troppo in gamba per i genitori, la cameriera nazista e lo pseudo-guru Iannacci, nonché un pitone scambiato per cobra, tutti iniziano a esprimersi al meglio delle scarse loro possibilità fra parolacce di dubbio gusto e gags deprimenti anche se capaci talvolta, non so proprio come, di strappare al vicino di cinema una risata sgangherata.
Quanto a Iannacci se la cava con poco: il suo ruolo di guru consiste in poche parole biascicate. Le sue pensose banalità più che all'intelligenza al massimo attingono al buon senso, e spesso neppure a quello: mitico quando, in un soprassalto di dignità, lui settantenne spiega alla minorenne che è meglio lasciarsi. Che classe squisita, che nobiltà d'animo! Non prima di essersela perlomeno baciata, però...
E l'asino? Si limita a guardare di sottecchi, anzi spesso neppure quello. Qualcuno lo carezza, lui non fa una piega. Esattamente ciò che dovremmo fare noi, se non fossimo spinti al cinema dalla pubblicità.