domenica 17 aprile 2011

HABEMUS PAPAM (film) di e con Nanni Moretti, Italia 2011

"Verosimiglianza", si legge nei dizionari, è la caratteristica di ciò che è simile o conforme al vero. In tribunale, il giudice è tenuto a valutare la verosimiglianza dei fatti riportati da un testimone. Se stiamo leggendo il giornale, è giusto sorvegliare che l'articolo riporti fatti veri e non inventati o distorti, e ciò si fa usando anche il criterio della verosimiglianza.
Al cinema è tutta un'altra cosa perché nessun film, salvo quelli che se lo propongono volontariamente, è tenuto a raccontare il vero. Anzi, la narrazione è di per sé arbitraria e in larga misura "deve" riflettere il punto di vista personalissimo degli autori. Altrimenti, non sarebbe arte.
Eppure, esiste a mio avviso un concetto di verosimiglianza anche al cinema, se pur di tipo diverso. E' quello che ti fa accettare i fatti narrati, anche se dichiaratamente inventati, senza obiezioni, senza farti esclamare: "che stupidaggini!". Certe volte i fatti sono talmente assurdi che, fuori della sala cinematografica, li bolleresti immediatamente come follie o fandonie; ma nel buio di un cinema tutto cambia. E così generano stupore, ma si fanno accettare per come sono, le cose più sbalorditive: per esempio l'impossibilità degli ospiti di varcare la soglia di casa nel Fascino discreto della borghesia di Luis Bunuel. Il collante che li sorregge non è sempre lo stesso: può essere l'effetto poetico, ad esempio in Otto e mezzo di Fellini, o un certo richiamo a simboli condivisi, o tanto altro. L'importante è che un collante ci sia, e funzioni.
In Habemus Papam questo collante non c'è. Le stranezze non risultano "verosimili", nel senso che ho detto. Cardinali che giocano a pallavolo, papi che fanno i mistery clients nei grandi magazzini, psicanalisti in conclave... non voglio negare a un regista imaginifico la facoltà di metterceli in scena; dico però che a Nanni Moretti manca il fiato e nulla di ciò che vediamo, francamente, appare credibile.
La storia è semplice: un novello Celestino Quinto, interpretato da un ottimo Michel Piccoli, una volta eletto al soglio di Pietro va in tilt e rifiuta di affacciarsi al balcone. Panico generale. Viene assoldato uno psicanalista (Nanni Moretti stesso), ma il papa fugge e girovaga per Roma, soprattutto in àmbito teatrale, fra le prove di una pièce cechoviana. Fino al ritorno in Vaticano e al finale annunciato.
Le scene più belle del film sono quelle iniziali, quando i cardinali in conclave, anziché (come ci si attenderebbe) ambire alla nomina, pregano tutti in silenzio di non essere eletti. "Non me, ti prego!" sussurrano a Dio i poveruomini, tutti - anche i più "papabili" - schiacciati dal senso di inadeguatezza. E i sussurri, nella finzione cinematografica, si assommano, si avvitano fra loro fino a diventare un coro di grida disperate. Qui Moretti dà prova di una vis critica che non è solo caustica e distruttiva, come spesso gli accade, ma per una volta ricca di pietas e di umanità. Frutto forse di personale ammirazione per il Papa santo? Le scene iniziali del film, scene vere del funerale di Woytila, sembrano suggerirlo, ma non possiamo esserne sicuri.
Poi però sulla scena irrompe lo psicanalista Moretti con la sua fastidiosa sicumera, non recitata ma proprio sua personale, con quella parlata supponente, da primo della classe, che gli viene tanto bene perché non deve costargli alcuna fatica. E tutto cambia: in men che non si dica il tono scivola dal solenne al ridicolo e tutti i personaggi regrediscono al ruolo di minuscole pedine dalle mosse prevedibilissime, in mano al regista deus ex machina. Le prudenze, i silenzi, le diplomazie vaticane sono messe alla berlina, ridotti a spunti di greve comicità: cosa fin troppo facile dalla prospettiva nichilista del nostro. E in barba ai divieti e alle costrizioni del luogo, Moretti diventa leader del collegio cardinalizio, spingendo questi alti prelati - scoperti nel loro lato indifeso e vulnerabile - a combinarne delle belle, compreso un torneo di pallavolo nell'austero cortile di San Pietro. Altro che ispirazione divina, dietro il Conclave. Moretti ce lo spiega: c'è solo un gruppo di poveri cristi incapaci di vivere e di capire, di godersi il dono della vita e di agire da uomini.
Un po' superficiale, direi. Avrà letto, il buon Moretti, qualcosa del Papa nuovo, del teologo Joseph Ratzinger? Si sarà reso conto della profondità di pensiero che soccorre certi personaggi? Ne dubito, così come dubito che Moretti sia il miglior giudice di riti antichi come quelli della Chiesa, di simboli affondati nell'essenza stessa dell'uomo, o se si vuole nella sua divinità, di gesti forse miseri se confrontati con l'eterno, ma che l'eterno intendono richiamare. No, Moretti non c'entra nulla, e il suo film ne è la miglior dimostrazione.
E sia detto per inciso, questo primino della classe (che peraltro si rende conto di esserlo e sembra addirittura un po' soffrirne, ma solo a tratti) si pappa in un boccone anche la psicanalisi, mettendone in ridicolo diagnosi vuote e terapia inconcludente. Solo lui conta davvero; Dio e l'umanità intera, con le loro debolezze, sono carne di porco nel macinino, meri ingredienti della magistrale sachertorte di Moretti.
Spunti suggestivi certo non mancano, come ad esempio il parallelismo fra rito religioso e recita teatrale: un filone che meriterebbe approfondimenti (e che nuovamente richiama il Woytila giovane, che fu attore in teatro). Ma nel complesso la prova non appare proprio riuscita e quando una prova non riesce tante cose vanno storte. Perfino il montaggio è molto confuso: ci sono scene non collegate fra loro (l'incontro fra il segretario di stato e il neoeletto papa ai Fori imperiali non è annunciato e si fa fatica a capire che si devono esser dati appuntamento; i cardinali che irrompono in teatro durante la rappresentazione e iniziano ad applaudire al Papa, che è in incognito in un palco: perché tutto il pubblico lo applaude? chi li ha avvertiti?, E perché il pazzo che recita Cechov e viene internato lo ritroviamo poco dopo sul palcoscenico ed è un attore vero? ecc. ecc.).
Alla fine del film rimane la grande interpretazione di Michel Piccoli e la forte impressione per quel finale con il balcone e la finestra vuota, le tende che si agitano al vento e, dietro, soltanto il buio. Un'immagine molto inquietante e direi da manuale di regia, ma troppo poco per dar vita e senso a un film che, per l'idea di partenza, poteva essere molto di più, ma avrebbe avuto bisogno di altri autori, di un altro regista.

domenica 10 aprile 2011

C'E' CHI DICE NO (film) di G.B. Avellino, Italia 2011

Inizierò con un accorato appello ai registi italiani: quando ambientate un film a Firenze, per favore prendete attori con l'accento fiorentino. Perché nei film romani si parla romanesco e in quelli fiorentini un'assurda storpiatura? Prendete ad esempio il titolo del film. Invariabilmente l'imitatore lo pronuncerà più o meno "sc'è hi disce no", pensando - sulla scia della famosa "hoha hola halda hon la hannuccia horta" - che tutte le c vengano aspirate. Ma non è così, non è così. Eppure, a Firenze gli attori non mancano mica, da Benigni in giù. Ne abbiamo perdonate tante, noi fiorentini: ci fu il Geppetto televisivo di Nino Manfredi, per dire, o il Tognazzi di Amici Miei, e glie le perdonammo perché erano dei grandi attori. Nel caso della Cortellesi, non vedo proprio perché dovremmo.
Ma vengo al film. Tre vecchi compagni di scuola si rincontrano. Uno è un giornalista precario, lei è un medico ospedaliero e il terzo un contrattista universitario. Tutti e tre dovevano "passare di ruolo" e invece sono stati scartati a favore dei soliti figli o nipoti di papà. Vittime di ingiustizie professionali, della parentopoli e del malcostume, decidono di ribellarsi e lo fanno usando le armi che i registi di second'ordine ormai appiccicano per défault ai toscani, appunto da Amici Miei in poi: lo sberleffo, lo scherzo al telefono, il pan per focaccia. Il clima è ancora quello delle "zingarate", ma più incerto e meno riuscito. La caratterizzazione dei personaggi non si scosta di un nanomillimetro dai banali cliché della satira all'italiana. Sembra di assistere alle commediole in vernacolo che andavano nei teatrini di quartiere di Firenze tanti anni fa, con il nobilastvo che pavla con la evve, e così via.
Non manca la straniera che, disgustata dall'italietta, si ribella ai metodi da mafia della sua nuova famiglia; però, però... il marito brutto, ricco e raccomandato se l'era sposato. Possibile che non si fosse accorta di nulla e che ci sian voluti gli scherzi dei nostri per farle aprire gli occhi?
Albertazzi fa la parte del rettore universitario corrottissimo, anzi il capo dei maneggioni, ma almeno intelligente. Dopo di lui il diluvio, gentuccia che neppure sa intrallazzare per bene, mezze figure che lasciano tracce imbarazzanti e non sanno stare al mondo. Certo, in confronto agli altri attori Albertazzi è un gigante, ma vien da chiedersi perché abbia accettato una parte, sia pure poco più di un cammèo, in un film così marginale.
Peggio che marginale, direi irritante. E la mia solidarietà va ai tanti veri discriminati, a quelli che non ce l'hanno fatta, i quali se andranno a vedere questo film scopriranno che la colpa è stata loro, perché "non hanno detto no". Tutto sommato il sistema che li ha schiacciati non era poi questo gran mostro. Bastava una telefonatina, una bombetta puzzolente ben piazzata: il barone sarebbe schiattato, e il posto liberato.
Ahimè non è così, naturalmente. Il sistema è antico quanto l'Italia, o forse quanto la civiltà. Anzi, oggi si è ancor più raffinato, consolidato; e non saranno certo le bravate di tre ragazzotti a metterlo in crisi. Del resto, al regista sembrano interessare assai poco gli aspetti di denuncia del suo film. Quel che gli interessa è la gag, lo scherzo, la faccia del professore davanti alla buca da piscina scavata sulla porta di casa sua, e via dicendo. Più che ad Amici Miei, in vari momenti sembra attingere alla comicità televisiva di Scherzi a parte. E non è un caso: dalla biografia del regista, ecco i suoi precedenti lavori: Casa Vianello, Crociera Vianello, Quelli che il Calcio, Pressing e, buon ultimo, il film di Ficarra e Picone. Potevamo attenderci altro?