venerdì 15 maggio 2015

LA FAMIGLIA BELIER (film) di Eric Lartigau, Francia 2014

Una famiglia di sordomuti nella campagna francese: l'unica che ci sente, la figlia adolescente, scopre di avere un talento per il canto e viene indirizzata dal suo professore ad una accademia con sede a Parigi. C'è però da prepararsi e da superare un difficilissimo esame. La famiglia, che inizialmente la osteggia (non vogliono che lei si mescoli con i normoudenti, che considerano degli inferiori) poi la capisce e la sostiene in questa che è anche un'uscita dall'adolescenza. Con un compagnuccio di studi, dall'aspetto bietolone quanto basta, è amore e odio, ma alla fine l'amore trionfa. Vale la pena di vedere questo film per una sola scena: quella del primo saggio di canto, dove lei canta ma noi non sentiamo assolutamente nulla, come accade ai genitori sordomuti presenti fra il pubblico. Per il resto, per carità: gli attori sono bravi, e tra l'altro per nulla sordomuti, la campagna è bellissima, il montaggio è serrato; ma tra le commedie francesi questa è la più americana, nel senso deteriore del termine. Come al solito c'è un protagonista e ci sono delle prove da superare. Inizialmente non se la sente, rifiuta di cimentarsi; anche i personaggi di contorno sono ostili, ma poi qualcuno di essi si redime e gioca a favore: dai, puoi farcela, credici! E il protagonista: no, non ce la farò mai, non merito tutto questo.... Il protagonista, sul quale nessuno avrebbe scommesso, non è adeguatamente preparato, ma all'ultimo tuffo decide di provarci, a seguito, di solito, di un pistolotto moralistico del ritrovato sponsor. Di solito (e anche qui) c'è una corsa disperata per arrivare in tempo al luogo del cimento. A questo punto una prova superlativa (sia essa una scalata di montagna, una partita di football, una gara di cucina o, come in questo caso, una cantata di fronte alla giuria) sancisce il successo raggiunto e l'ascesa all'Empireo, fra la commozione degli astanti. Scena finale: bacio con il partner, battuta di spirito conclusiva per sdrammatizzare, e tutti a casa felici e contenti. La famiglia Bélier non sfugge a questo cliché dove cambia l'ambientazione, cambiano le facce e tutto il resto, ma cambiano perché nulla cambi nello schema narrativo e nel messaggio; e si inserisce pertanto a buon diritto nella lista dei film già visti prima di entrare in sala, film che proprio non possono piacere a chi scrive.

sabato 2 maggio 2015

MIA MADRE (film) di Nanni Moretti, Italia 2015

Tutti abbiamo una madre; e tutti, prima o poi, ne restiamo orfani. E' la logica fredda della vita e della morte, cui nessuno può sfuggire. Neppure Nanni Moretti. Neanche l'arroganza da "lei non sa chi sono io", che è forse il tratto più appariscente del Moretti pubblico, può nulla col Padreterno e con quella sua logica. Forse per Moretti è un'amara sorpresa, forse di questo passo scoprirà perfino di non essere lui stesso immortale. Intanto, ecco il suo film sul senso di irreparabilità di fronte alla morte di sua madre. Per Moretti, tuttavia, non tutti abbiamo una madre che muore. Solo lui ne ha una, o almeno una che valga la pena di raccontare. E infatti è proprio quella, che viene narrata, e nessun'altra. Moretti non si rende conto, purtroppo, che i sentimenti espressi nel film sono già stati raccontati prima, e meglio. No: lui dà per interessanti, e bastanti allo spettacolo, temi ormai mangiati e digeriti da chiunque legga qualche libro o guardi qualche film ogni tanto. E scommette col pubblico che i suoi fatti personali desteranno interesse proprio in quanto suoi personali, non perché originali o perché scandagliati con profondità. Nessun bisogno né di profondità né di originalità, perché il driver è la valenza universale che la vicenda sua ed intima riveste. Il suo delirio arriva al punto da rivendicare, anche programmaticamente, una pretesa necessaria compresenza, ma non coincidenza né immedesimazione, di attori e personaggi. No, cari attori, trattenetevi dall'immedesimazione: la parte dev'essere recitata con quel tanto di sufficienza e inverosimiglianza da far trasparire l'attore stesso accanto al personaggio. In ultima analisi, Moretti vuol essere certo ogni oltre dubbio che la storia narrata risulti proprio la sua, e non quella un po' deviante (poco, peraltro) della sceneggiatura. Come se avesse detto a Margherita Buy, che interpreta Moretti stesso: va bene, la protagonista sei tu, sei una donna, non hai la barba; ma ricordati bene che stiamo parlando di me, e dunque non ti calare poi troppo nel ruolo, lascia che io traspaia ben bene attraverso una certa palese e vagamente esibita teatralità. Questo, infatti, nel film, dice la Buy, nella sua parte di regista-alter ego di Moretti, agli attori che maldestramente dirige. Del resto è questo a cui Moretti ci ha abituati, innanzitutto proprio come attore: la sua è una cantilena, un'esibizione stonata; stonata e esibizionistica quel tanto che basta a ricordarci in continuazione che di falso si tratta, e che di lui, Moretti Giovanni da Brunico, ci dobbiamo sempre occupare. Mai abbandonarci troppo al personaggio, che è e deve restare un puro simulacro, un pretesto o poco di più. Può darsi che a qualcuno piaccia tutto questo; magari piacerà alla giuria di Cannes, anche per via dei soldi che produttori francesi ci hanno investito, e dunque può darsi che a Cannes il film riscuota qualche consenso. Così va, al giorno d'oggi, l'industria del cinema.