sabato 13 novembre 2010

Uomini di Dio, film di Xavier Beauvois (Francia 2010)

O Musa degli Stroncatori, aiutami! Guidami le dita sulla tastiera, indirizza il mouse sul tappetino, affinché io possa parlar male di Uomini di Dio. Perché non è facile porsi contro questo film maturo, per certi versi profondo, e per di più politically correct.
Che cosa dunque non va in Uomini di Dio? Direi il tema. Gli autori infatti trattano temi sui quali fare film, per quanto volenterosamente, o con grandi risorse intellettuali, morali o tecniche, è impossibile. Primo fra tutti, l'eroismo Non è un tema su cui fare un film introspettivo o di testimonianza morale. Ci si possono fare western, quanti Rambo volete, perfino film di guerra a volontà, ma a patto che sulla verità prevalga la fiction. Al contrario, se il film vuol rendere con verosimiglianza e adesione psicologica una vicenda umana, e questa è stata un autentico atto di eroismo, essa rimarrà sempre irraggiungibile e il film risulterà sempre inadeguato.
La storia vera, in questo caso, è quella di un manipolo di fraticelli in terra islamica, benvoluti e rispettati da tutti nel vicino villaggio, che vengono prima minacciati, poi presi in ostaggio e infine trucidati da un commando di terroristi sedicenti islamici, piovuti quasi da un altro pianeta sul pacifico territorio del monastero. E' la tesi dell'estremismo islamista che nulla ha a che fare né con la pacifica religione della gente né con il Corano, che invece predicherebbe la fratellanza. Si potrà essere più o meno d'accordo con questa visione - forse un pelino buonista - ma il fatto è che la sua traduzione cinematografica è comunque abbastanza ingenua e dunque insoddisfacente. Peggio, direi: è paternalistica, perché nel film i frati curano, comprendono, perfino ammirano, benedicono e accettano benedizioni ma sempre da una condizione di forza, da un gradino di altezza dove li pongono la religione cattolica, l'essere europei, la civiltà di cui sono portatori. Ce li pone tutto, su questo invisibile piedistallo: perfino la rinuncia, la povertà, quello cioè che dovrebbe tirarli in basso: la rinuncia infatti, come dice a un certo punto un frate, per un credente è il veicolo dell'elevazione. Nella realtà è giusto che sia così, ci mancherebbe: la forza della fede è la forza di chi sa di essere nel giusto e non teme di dichiararlo, neppure a costo della vita; ma nel film questo pregiudizio di superiorità diventa quasi un fastidio, se non un autogol. Alla festa di "para-battesimo", un predicatore maomettano dice che Dio si serve di messaggeri vari, non importa di che tipo. Quanto più limpido finisce per apparire questo tipo di tolleranza, rispetto alla tolleranza ideologica dei frati!
E siamo al secondo argomento impossibile: la fede religiosa. Mettere in scena la devozione, la santità, in ultima analisi anche in questo caso l'eroismo dell'uomo-pulce davanti a Dio è impresa titanica, che neppure ottimi registi riescono a far quadrare. Agiografia e retorica sono i principali rischi in agguato; e per quanto il regista abbia dichiarato che i suoi sforzi sono stati indirizzati a evitare iperboli e superlativi, tutto il film risulta in sospetto di celebrazione. Si ha spesso l'impressione di intravedere lo sforzo nel rendere sentimenti troppo elevati, troppo distanti da noi poveri uomini normali: sforzo recitativo degli attori, sforzo creativo di autori e regista; e così l'illusione si sfalda e dal muro del monastero, sullo schermo, qua e là trapela quel che c'è dietro davvero: il set di una produzione cinematografica.
Il film indaga non tanto sulla tragica conclusione della vicenda, quanto sull'attesa della catastrofe: entra nei cuori dei frati sondandone il coraggio, le paure, la dinamica (per la verità non chiarissima) dalla iniziale voglia di fuga di alcuni fino alla decisione unanime di restare, di dare testimonianza fino alla morte, quando essa appare ormai quasi certa. Mette in luce certo le debolezze di alcuni ma soprattutto la bontà di tutti, la buona fede, e infine l'assoluta dedizione e devozione alla causa e a Dio, perfino la capacità, che è propria solo dei grandi, di sciogliere il cuore al capo dei terroristi e di commuoversi alla sua sordida fine.
A proposito, quel capo terrorista che prima passa per le armi senza tanti complimenti tutti gli occidentali che incontra, che è dichiarato dalla stessa popolazione locale come un alieno con il Corano a fargli da lugubre foglia di fico, ma poi si arresta sulla soglia del monastero, discetta di fede e dialogo interreligioso col padre superiore, con lui recita i versetti coranici e finisce per andarsene coi suoi senza bottino, è quanto di più inverosimile - e meno chiaro nel film - si possa immaginare.
Ma c'è dell'altro: vorrei proprio sapere chi è l'autore dei versetti cantati dai frati nelle loro litanìe: magari mi sbaglio ma mentre le note sono di tipo gregoriano, ovvero austere e cariche di echi medievali, i testi mi sembrano ammiccanti, lirici forse qua e là ma non certo liturgici, anzi quasi ridicoli nella loro ampollosità.
Nel complesso il film è ben fatto, ben costruito, ben recitato, non dico di no; e mi riferisco soprattutto al casting, capace di rintracciare tipi estremi quasi da vangelo pasoliniano, o addirittura caricature pseudoleonardesche (tranne il padre priore, il cui volto accattivante sembra una concessione alle esigenze di un vasto pubblico). Lo ripeto: non si tratta di un film da buttare ma la santità, l'eroismo, la fede erano con ogni probabilità nella vicenda reale, non abitano qui.

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