martedì 30 novembre 2021

FALSTAFF (di G. Verdi)

Per me era una prima assoluta, ed ero molto curioso. Avevo sentito qualche critica un po' delusa sull'allestimento (regia di Sven-Eric Bechtolf, scene di Julian Crouch), ma invece l'ho trovato un buon lavoro: un lavoro pulito e ossequioso, finalmente senza concessioni alla moda del "voler dire anche altro", che spesso compromette la concordia fra azione teatrale e testo lirico, o quando va bene si limita a costringere i poveri cantanti a indossare giacchette da monsù Travet. La direzione di Sir John Eliot Gardiner, poi, si è fatta ammirare per rigore e compostezza.

Mi scuseranno i melomani se mi azzardo a sostenere che invece quel che non va, in quest'opera, è proprio l'opera. E' la partitura di un "vate" ormai ottantenne, cui il successo è dovuto a prescindere. 

Per cominciare dalla musica: non dico che le opere debbano essere per forza tutte cantabili; ma diamine, se si dice Verdi la cantabilità è una legittima aspettativa, e se questa non c'è per almeno la prima metà della serata, allora si rimane interdetti. E d'altra parte, quali altre strade vorrebbe azzeccare un Verdi non cantabile?

Quanto al libretto: per cimentarsi (quasi un inedito per lui) con l'opera buffa, Verdi sceglie un soggetto quasi uguale al Don Pasquale di Donizetti, che però è di 50 anni prima! E tutto quel che in Donizetti scorreva musicalmente e scenicamente fluido e "credibile", qui si accartoccia in sequenze spesso inutilmente ripetitive e in scene quasi da riempitivo. La beffa si svolge in due tappe, appesantendo la vicenda; si assiste a resoconti (in interminabile recitativo) di fatti cui abbiamo già assistito in precedenza, come se il Boito dubitasse dell'attenzione del pubblico...

Infine qualche parola sugli aspetti prettamente linguistici e poetici. Va bene che l'opera era da sempre il terreno privilegiato per ridicoli arcaismi e temerarie acrobazie lessicali; però qui c'è una scelta ancor più radicale: in favore di una rigida applicazione delle rime, infatti, spesso viene sacrificato ogni altro criterio, comprensibilità inclusa. I versi di Arrigo Boito, insomma, sono formalmente corretti ma poeticamente insufficienti.

Gli appassionati, se qualcuno di loro mi leggesse (cosa per fortuna poco probabile) mi prenderebbero per un ignorante. Confesso: lo sono, e per questo scelgo spesso il silenzio; ma stavolta non ce l'ho fatta e me la sono proprio cercata.