sabato 12 giugno 2010

COPIA CONFORME. di Abbas Kiarostami, 2010

Kiarostami non è un regista qualsiasi. Segue un filo conduttore, svolge un tema che gli sta a cuore e che torna protagonista anche ad anni di distanza. Questo tema è il rapporto fra vero e falso, fra originale e copia.
In quest'ultima prova, Copia conforme, l'indagine lascia ogni altro terreno, compreso quello della truffa (Close-up), e si cala direttamente nel nocciolo della questione vero/falso: quello dell'arte. Un critico d'arte e un'antiquaria ne discutono: che cos'è un originale? Forse la Gioconda? O non è anch'essa una copia, mentre originale era solo la Monna Lisa in carne ed ossa? Ma allora, in che cosa è da preferirsi l'opera di Leonardo rispetto alle copie realizzate in seguito? I protagonisti mostrano di non saperlo, o per lo meno esibiscono, verso il falso, una pensosa indulgenza.
La questione vero/falso finisce per coinvolgere anche le relazioni personali fra i protagonisti: lui e lei si sono incontrati più o meno casualmente; parlano, si gettano ami... sembra un normale imbrocco; ma poi lei riferisce a una barista che sono sposati da quindici anni, e qui le cose si complicano: sta raccontando una balla? Oppure è vero? I due non parlano più amabilmente; discutono, litigano, come coniugi sull'orlo della separazione si accusano reciprocamente di incomprensione e insensibilità; la storia del loro preteso matrimonio sembra inverarsi sempre più, finché si ritrovano in una stanza d'albergo "come ai vecchi tempi", ma non si capisce se sia la prima volta o l'ultima di una serie. Lei gli sollecita il ricordo di un passato forse vero o forse solo inventato, per gioco o per chissà che altro; e la smemoratezza di lui può essere, a scelta, frutto di oblio o di semplice insussistenza dell'oggetto. E invece che calarsi nel letto da cui lei lo invoca, lui infine si chiude nel bagno, e un interminabile sgocciolio dichiara che sta impietosamente urinando. Sfinimento dopo quindici anni di matrimonio, o esitazione di fronte alle estreme conseguenze di una recita non più tanto intrigante? Un bel rebus, anche perché il regista ci porta fuori strada con indizi non tutti compatibili (come sarebbe in un buon giallo) con entrambe le soluzioni. E di certo lo fa volutamente, come a dire che nella vita, e forse anche nell'arte, vero e falso non si elidono a vicenda ma si compenetrano sopravvivendo l'uno all'altro in un quadro di ineliminabile, e creativamente feconda, contraddizione.
Tutto giusto, tutto interessante. Ma qui va messo un punto. Anzi molti puntini sugli "i".
Per prima cosa, il tema vero/falso, originale/copia nell'arte non è solo antico come dice anche il protagonista del film, ma se possiamo permetterci, anche abbastanza inconsistente. Il critico-teorico dell'arte del film si muove fra concetti enormi, scrive sui massimi sistemi, ma tanta teoria non sembra compatibile con la pratica attuale; insomma, il personaggio appare subito poco credibile e temo che un vero critico d'arte esca dalla sala irritato da un'indigestione di ingenuità.
Poi dobbiamo parlare della noia. Negli ultimi tempi, ci dicono, Kiarostami si è dedicato molto ai cortometraggi. E si sente!, verrebbe da dire: Copia conforme è un film più breve del normale, ma nonostante questo soffre di innegabili lungaggini in più di una fase: la scena iniziale della conferenza, che poteva essere solo accennata; la pur bella scena dell'auto sul cui parabrezza scorrono riflessi i palazzi toscani... ma quanto durano, e perché? - per non dire delle conversazioni fra lui e lei, che si avvitano per lunghi minuti senza progredire verso alcuna meta.
Un commento a parte merita l'ambientazione: una Toscana di maniera, una Lucignano turistica, effetto questo non a sufficienza smorzato dalla totale assenza di colonna sonora (l'insopportabile fisarmonica, che snocciola 'O surdato innamorato nell'improbabile festa matrimoniale in piazzetta, annulla del tutto l'efficacia della rinuncia). Né l'effetto Turisti per caso è vinto dal pur apprezzabile pudore del regista, che inquadra oggetti, palazzi e statue solo di sfuggita, di riflesso, per sottrazioni furtive dallo sguardo intimo dei protagonisti. La "maniera", purtroppo, sbuca fuori da ogni parte, come a sottolineare l'abbraccio mortale fra un regista iraniano, fresco, di qualità, e il mediocre sottobosco della coproduzione italiana (perfino la Regione Toscana è coinvolta, e allora come immaginare un film non celebrativo?): basti pensare ai tipi umani quasi da neorealismo post litteram. Come la barrista, sì, con due erre, che in un toscano affettato dispensa perle di saggezza popolare, o il figlio di lei che parla con lo smartphone sempre acceso (ah, ci mancava, al cinema!) e ci cosparge di indizi fallaci su sua madre, litigandoci e conquistandosi la palma assoluta dell'antipatia.
Ma detto tutto questo, va detta ancora la cosa principale. Se vuoi fare un film per raccontare una storia, allora l'azione sarà essenziale; se invece, come qui Kiarostami, ne vuoi fare uno che svisceri un determinato argomento, decisivi saranno i testi. Dato infatti il tema, devi riempirlo con dei contenuti che a) tengano lo spettatore sveglio e b) iniettino sangue vivo sul corpo del soggetto; altrimenti il soggetto resterà un cadavere freddo sul tavolo autoptico. E qui il regista sembra preoccuparsi molto del tema a lui caro, ma molto meno dei dialoghi, delle parole. Volutamente? Non è sufficiente giustificazione. E nell'essere i dialoghi brutta copia (non conforme) di quelli di altri film, di altri romanzi, di altra letteratura, sta la colpa fondamentale di questo pur raffinato filosofo del grande schermo.

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