sabato 15 ottobre 2011

La pelle che abito (film) di Pedro Almodovar, Spagna 2011

Chi va a vedere un film di Pedro Almodovar lo fa sempre a suo rischio e pericolo. Si sa, al regista spagnolo piacciono le situazioni estreme, le trame avviluppate, i personaggi psicopatici, i colori forti e contrastati. Dunque non dovrebbe sorprendere questo La pelle che abito, con un Antonio Banderas in veste di chirurgo pazzo, alias Frankenstein per nulla junior.
Invece c'è da rimanere di sale per la delusione. Questa volta, infatti, la ricerca spasmodica di tutto quanto possa dare scandalo si traduce in scene e storie inverosimili e insostenibili. Ciò che viene urtato, beninteso, non è solo il buongusto, anche se talvolta dovremmo tornarci un po', a quel senso della decenza che pare perduto. No, è anche il senso del ridicolo. E com'è noto, la risata non prevista dall'autore, a sua insaputa, è la peggiore delle iatture per chi fa opere d'arte, o presunte tali.
Difficile riassumere la storia, arzigogolata com'è: un chirurgo pazzo vive con una domestica che in realtà è sua madre. Sia la moglie che la figlia (pazza anche lei, ca va sans dire) sono morte suicide anni prima. Ma per la morte della figlia lui incolpa un poveretto che lavora in un negozio e fa il filo alla collega commessa, peraltro lesbica.... A una festa, infatti, il ragazzo aveva tentato un approccio con la figlia del chirurgo la quale, già in terapia, era rimasta sconvolta, fino appunto a suicidarsi dopo un passaggio in una assai improbabile clinica psichiatrica.
Il chirurgo nasconde in una supertecnologica cantina una sala operatoria completa, ma soprattutto tiene segregata una bella figliola dai lineamenti ancora instabili ma ormai quasi pronti, e soprattutto una pelle extrastrong di sua invenzione, ultimo atto di una plastica facciale e corporale con cui il chirurgo ha riprodotto nientemeno che le fattezze della moglie. La quale, prima di ammazzarsi definitivamente, era rimasta gravemente ustionata in un incidente mentre scappava col di lui fratello, un altro suonato come una campana che a un certo punto irrompe nel film vestito da tigre, con tanto di baffi e coda.
Con uno dei vari trasferimenti temporali e flashbacks del film, si finisce per capire che la prigioniera belloccia altri non è che il povero commesso, per vendetta opportunamente deprivato degli attributi e trasformato, in sei anni di interventi, in una ragazza fatta e rifinita, nonché sosia della moglie morta. Col difetto, però, che il sesso le provoca dolore. Che il chirurgo abbia sbagliato qualcosa? E sì che glie lo aveva detto, dopo la resezione, di infilarsi una serie crescente di dilatatori (in bella mostra nel film, dal più piccolo al monstrum)....
Segue sindrome di Stoccolma, con innamoramento fra vittima e aguzzino, nonché realizzazione, evidentemente, di un desiderio di sesso uomo/uomo al massimo del travestimento e della trasposizione: maneggiare cioè una femmina, sapendo però che è un maschio. Ma poi, il finale è un altro.
Come si fa a reggere una simile montagna di sciocchezze senza ridere? Soprattutto se la storia si svolge in un ambiente insopportabilmente patinato, fra macchine supersportive, villa signorile, apparecchi medicali futuribili (a proposito, la storia si svolge nel 2012, tanto per evitare obiezioni di assurdità tecnica).
Non c'è dunque bisogno neppure di scomodare il buongusto, per stroncare senza appelli questo film: basta metterne in risalto il ridicolo involontario, quando ci si rende conto che dagli ammiccamenti sapidi dei primi films, Almodovar è passato a modi e registri da melodramma nudo e crudo, senza autoironia alcuna e dunque del tutto indifferenti al mondo, spettatori compresi. Almodovar insomma ha imboccato una deriva che dalla facilità narrativa degli esordi, ricca di una sua vena quasi dadaista, bunueliana, lo ha condotto ad esiti dove nessuno può seguirlo rimanendo serio, dove lo sfogo alle pulsioni, il crogiolarsi nel raccapriccio prendono la forma di un monologo talmente solipsistico, autoreferenziale e autocompiaciuto da risultare privo di riferimenti concreti, pur nell'esagerata abbondanza di citazioni cinematografiche. C'è da domandarsi, di questo passo, a che cosa si spingerà col prossimo film!
Quanto a me, non sono sicuro che andrò ad accertarmene.

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