domenica 10 gennaio 2016

Quo vado (film), di Gennaro Nunziante e Checco Zalone, Italia 2015

Lo confesso: sono entrato al cinema che il film era già iniziato da quasi mezz'ora. Per quel che ho visto, però, questo capolavoro campione d'incassi soffre degli stessi problemi dei vari film costruiti su misura per il comico mattatore di turno, vuoi che sia Pieraccioni, o il povero Troisi, o Nuti, o il trio Aldo Giovanni e Giacomo, e così via: non è l'attore a servire al film; al contrario, il film è tutto costruito, dall'inizio alla fine, per creare gags da mettere in bocca all'attore. Ovvero, è il film che serve all'attore. Riguardo a Quo vado, che si può dire? Zalone è abile e pure simpatico, ma la sua bravura è cosa da sketches, dove a me pare attualmente imbattibile, e non da lungometraggi. Peggio ancora se si mette a fare il primattore bello, giovane e tombeur des femmes. Ma il pubblico è di bocca buona, beve e sorvola. Tanta è la sete di battutacce elementari, tanto il bisogno di comicità facile, di quella che muove i muscoli della bocca ma non impegna la massa cerebrale. Quanto a questa è un peccato perché Zalone la possiede ma non la usa, o forse l'impresa era francamente troppo ardua per uno come lui privo di adeguata esperienza cinematografica e di prospettiva. E così il canovaccio è strizzatissimo, il film un limone prosciugato di qualsiasi succo. In breve, la vicenda si sviluppa dal contrasto fra luoghi comuni triti e ritriti: da una parte l'italianità cafona di chi persegue, conquista e difende ad oltranza il "posto fisso"; di chi si arrangia, dei figli mammoni, e di tutto quanto da sempre abbiamo già visto. Nulla manca, neppure il clacson al semaforo, il parcheggio in seconda fila, la pastasciutta al dente. Dall'altra la rigidità nordeuropea, inappuntabile, ammirevole ma fredda. Il finale non è una sintesi fra i due estremi, ma solo un comodo atto autoassolutorio e consolatorio che olezza di provincialismo in modo insopportabile. Pensiamo solo a un povero straniero che si veda questo film. Che penserà di noi, e dell'idea che abbiamo di lui? Ho i brividi a pensarci. Ma c'è dell'altro: tutta la storia è narrata da Zalone a una tribù di selvaggi dell'Africa nera. Roba da falde del Kilimanjaro paraponziponzipò. Ahimè, roba più che vagamente razzista, roba che solo un presuntuoso mangiaspaghetti poteva concepire. Ah già, ma c'è il finale buonista, con l'acquisto dei medicinali per l'ospedale dei boveri negri... Ma che brava gente sono questi italiani, quando ci si mettono. Si tolgono di bocca il maltolto, e come fanno loro la carità non la fa nessuno, fra gli osanna dei boveri negri riconoscenti. Nauseabondo, non c'è altro da dire. E al calare del sipario, nulla mi avrebbe convinto a restare per vedermi la prima mezz'ora perduta. Piuttosto mi infliggo dieci puntate de Il Segreto in TV.

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