domenica 4 ottobre 2015

Padri e figlie (film), di Gabriele Muccino, USA-Italia 2015

Quando si dice la sfiga: alla bimba Ketty (in arte Patatina - in inglese Potato Chip) prima muore la mamma in un incidente, poi capitano zii ricchi e spietati che la vogliono adottare a tutti i costi, e infine muore anche l'affezionatissimo padre. Si capisce che la ragazza (da grande è l'attrice Amanda Seyfried) maturi un irrazionale terrore di essere abbandonata. E' meno scontato, ma cinematograficamente assai comodo, che quel terrore la induca, una volta divenuta grande, a ruvide copule con occasionali compagni di toilette o di abitacolo. Si sa, il pubblico non è fatto tutto di intellettuali e va tenuto sveglio in qualche modo. Il mondo di Ketty, che filmicamente si sviluppa in un alternarsi di scene dall'infanzia e dalla giovinezza, è strutturato con il solito dualismo tipicamente americano di buoni e cattivi, come in un affollato far-west newyorkese. Da una parte, in questo caso, gli integrati, quelli che "questa è la procedura, bellezza". A volte in buona fede, come la direttrice del centro per ragazzi difficili dove - guarda caso - la neo-psicologa Ketty riversa il suo tragico vissuto in spinta pedagogica. Oppure in orribile mala fede come i cattivissimi zii, la cui ostinazione nel volerla adottare strappandola al padre naturale, con l'intento falso-buono di volerla re-integrare nell'establishment, risulta addirittura grottesca e comunque inverosimile. Dall'altra parte ci sono invece i non integrabili né re-integrabili, quelli tutto cuore e buoni sentimenti, quelli tanto chiaramente nel giusto da far parere strano che le loro ragioni, per prevalere, ci mettano tutto il tempo del film anziché pochi secondi. Fra questi buoni, nel film, campeggia il padre scrittore (Russel Crowe). La città guarda storto questo suo aedo, soprattutto dopo che l'incidente gli ha lasciato un'imbarazzante forma di epilessia. Ma i buoni prevalgono sempre nei film americani, specie quando si spogliano delle sovrastrutture e tornano alla pura sincerità autobiografica priva di qualsiasi filtro. Peccato che il denudarsi in pubblico come motore di buona letteratura appaia assolutamente indigeribile per chiunque mastichi un minimo di tecnica narrativa. Ma tant'è: dopo l'insuccesso di un romanzo privo di motivazioni forti, il nostro si fa convincere dalla figlia bambina a parlare proprio del loro rapporto, e ne esce manco a dirlo un capolavoro. Dove Ketty si chiama proprio Ketty, anzi proprio Patatina, e tutto sarà squadernato (si deduce) in un flusso di autocoscienza. Immancabile il "meritato" successo, che però lui morendo non potrà godersi. Proprio dal libro e dal suo successo, in un prevedibilissimo "post fata resurgo" nasce il riscatto per la ex bambina, ora ragazza problematica e rapinosa di sesso. Ma la successiva storia d'amore è vicenda talmente scontata che neppure val la pena di riferirla. Né mi si accuserà di aver svelato troppo di un film così prevedibile dall'inizio alla fine: laddove non c'è né originalità, né mistero né sorpresa, non può esserci alcun rischio di anticipata rivelazione.

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