lunedì 4 febbraio 2013

La migliore offerta (film) di Giuseppe Tornatore, 2013


Europa, una città qualunque (Vienna, ma non importa). Un battitore d’asta (Geoffrey Rush) cresciuto in orfanotrofio, ma poi divenuto sofisticato gourmet, intenditore di Veuve Cliquot e – in second’ordine – d’arte, fa il suo mestiere con charme e competenza, con successo e qualche disinvoltura di troppo: infatti quando vanno in asta pregiatissimi ritratti femminili, lui si guarda bene dallo svelarne il potenziale valore a proprietari e pubblico e se li aggiudica a basso costo tramite un amico/complice in sala (Donald Sutherland). D’altra parte lui (ben più che sessantenne) ha gravi problemi con le donne e quei ritratti, appesi in casa sua alle pareti di una sala blindata, gli consentono un godimento di sapore più che velatamente onanistico. Davvero occorre fare uno sforzo per dar credito allo sceneggiatore!

Ma il nostro battitore d’asta, non appena delineato dagli autori nella sua spocchiosa sicumera, si fa maldestramente irretire dal gioco provocatorio e sensuale di una ragazzotta (Sylvia Hoeks) che potrebbe essere sua figlia, anzi sua nipote. Una ragazza che non si palesa, ma gli parla al telefono (peraltro, per il pubblico italiano, con un accento romanesco che fa cascare per terra gli attributi). La misteriosa ragazza gli prospetta la vendita all’asta di tutti gli arredi di una ancor più misteriosa villa in stato di abbandono, dove favolosi mobili e dipinti sono sopravvissuti intatti nonostante che porte e cancelli, nel corso del film, appaiano generosamente aperti per esigenze di copione.

Lui, il battitore poco libero ma di successo, quando parla al telefono copre quest’ultimo con un tovagliolo; e in generale lavora, mangia, e presumibilmente si lava, sempre coi guanti indosso per via di una fobia grave, la stessa che gli impedisce di guardare negli occhi le donne in polpe ed ossa. Che fortuna dunque questa giovine che senza mai mostrarglisi gli lascia intravedere per telefono, o attraverso una falsa parete della villa, paradisi terrestri d’arte e di sentimenti. Ma le fobie, si sa, sono brutte bestie. Così la storia si snoda fra innumerevoli marce avanti e repentine frenate, tanto che il pubblico in sala, giustamente spazientito, si lascia andare a clamorosi sbuffi all’ennesima crisi isterica di lei che lo esautora, o all’ultimo scatto d’orgoglio di lui, che per la decima volta annuncia di rinunciare all’incarico.

Un giorno però il vecchio battitore un po’ troppo curioso si nasconde dietro una statua della villa per sbirciare la ragazza dal vivo. Quale meraviglia! La ragazza è ovviamente bellissima, evidentemente la vita da reclusa le ha giovato. Peccato che l’attrice risulti una sciampista slavata e non incarni affatto quel fascino che il film vorrebbe attribuirle. Quanto se ne sarebbe giovato, il film, se la ragazza non l’avessimo mai vista, se fosse rimasta un puro sogno!

Intanto, negli scantinati della misteriosissima villa si trovano – ma rigorosamente a rate – piccole rotelline di un ingranaggio che all’occhio rapace del protagonista appaiono subito, non si sa come, preziosissimi pezzetti di un puzzle. Sono infatti, si apprende di lì a poco, componenti di un automa di epoca settecentesca che, se ricostruito, avrebbe un valore inestimabile. Lo conferma un giovane tecnico di ascensori, che evidentemente di macchinari d’antiquariato se ne intende. Dall’alto di una sua praticaccia di donne, il tecnico diviene anche confidente e suggeritore sentimental-erotico dell’anziano e poco esperto battitore. Mentre la storia romantica fa il suo corso, gli ingranaggi si fanno docilmente ritrovare qua e là nella villa, e l’automa via via prende forma nelle mani del tecnico-lenone. Quando appare in tutto il suo splendore, l’automa finisce per assomigliare parecchio al robot di Star Wars, tranne qualche punto di ruggine in più. Ma anche all’altro automa cinematografico di pochi mesi fa, quello altrettanto assurdo di Hugo Cabret, film comunque per altri versi non male.

Con sprezzo del ridicolo, il film si addentra in disquisizioni filosofiche sulla distinzione fra vero e falso. In ciò ricordando un altro film sullo stesso tema, quel  Copia conforme di Abbas Kiarostami che, lo dico subito, si trova stroncato più indietro in questo stesso blog. Anche in La migliore offerta, il tema investe l’arte come la vita, l’antiquariato come i sentimenti. Con una variante: secondo il banale relativismo di Tornatore, il falso non è mai falso fino in fondo; non nel senso che il falso sia anche un po’ autentico (tema questo di Kiarostami), ma nel senso che i falsari non riuscirebbero a trattenersi dal lasciare nelle loro copie un’impronta, una sigla, un che di riconoscibile che ne consenta l’identificazione, sia pure solo all’espertissimo studioso. Nel falso artistico, insomma, il “vero” è, secondo Tornatore, il minuscolo segno della personalità del falsario, ciò che rende l’opera non più copia ma originale (salvo poi diventare, nella storia del film, un falso indizio che consente al nostro di impossessarsi di un capolavoro spacciandolo per una copia…).
Anche nella storia sentimental-umana si aggirano dei falsari; anzi il povero protagonista ne è accerchiato: falsi amici, false amanti, falsi consiglieri… una tresca mostruosa che coinvolge tutti quanti e in cui anche gli innocenti risultano colpevoli, e non viceversa. Ma anche in questo colossale inganno, si suggerisce, qualcosa di vero c’è: non tutto è truffa. E guarda caso, il dettaglio di verità è proprio l’amore. Ma sì, diamogli un contentino, al povero vecchio turlupinato, massacrato di botte e spogliato di tutto, secondo una frusta tradizione del teatro comico già secoli fa. La ragazza lo amava davvero e dunque nulla vieta al vecchio, pur becco e bastonato, di sedersi al tavolo di un ristorantino praghese fitto fitto di ingranaggi di orologi, dove lei si recava da adolescente. Va lì e si siede, ad attendere nella ragazza un eventuale soprassalto di sentimenti. Ma lei è lontana, col resto della banda e col bottino. Chissà se ci pensa ancora.

Come si vede, il parallelismo col vero-falso in arte non regge: lì infatti il vero che traspare è smascheratore dell’inganno; nella vicenda narrata, invece, il vero (un sussurro nell’orecchio: “qualunque cosa accada, sappi che ti amo”) non impedisce affatto il raggiro, anzi ne appare necessario ingrediente, salvo lasciare nel raggirato la speranza (illusione?) di un postumo happy end.

A parte la filosofia da bignamino, il film non convince per quel suo ammiccamento al mercato, a Hollywood; per le irritanti spalmature di patina, per l’aria di mistero non buffo che trasforma ogni ambiente in anticamera di seduta spiritica. E soprattutto per la suspense che suspense non è: sfido chiunque a dire che non aveva previsto la fine. Alzi la mano chi si aspettava di vedere tutti i quadri regolarmente appesi quando lui riapre la porta del caveau con in mano il ritratto della mamma di lei (dipinto, si capisce, dal suo complice di sala, traditore anche lui per vendicare il suo inapprezzato estro artistico: che complicazione!). Non convince neppure il personaggio dell’orologiaio/ascensorista (Philip Jackson), con una recitazione che mediocre è dir poco. Alla fine di un film che è davvero solo una turbativa degli incanti, un solo “bravo” mi sento di dire, e va alla nana del bar, surreale figura che per fortuna il regista si è scordato di spiegarci fino in fondo.

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