domenica 20 ottobre 2013

Anni felici (film) di Daniele Luchetti, Italia 2013

Siamo all'inizio del film. Una voce fuori campo introduce alla storia. La voce è quella, ormai adulta, del bambino che vedremo nel film. E quel bambino è lo stesso regista, che dunque intende rievocare una vicenda almeno parzialmente personale.
La storia si svolge in un decennio, gli anni settanta, nei quali Roma era scaldata ma anche tormentata dalle proteste, dai cortei, da una lotta politica accanita (divorzio...), perfino sconfinante nel terrore. Nel film, nulla si avverte di tutto questo; ciò che Luchetti vuol narrare è una storia personal/familiare, dove se mai l'affermarsi di nuove prospettive morali e di costume si esprime attraverso le vicende, gli amori e le pulsioni degli individui e attraverso la dinamica familiare.
Ma qui risiede il primo problema: forse perché deprivata del suo contesto sociale, ma certo anche per una recitazione inadeguata, la ricostruzione ambientale appare imperfetta. Più volte, guardando, ci si dimentica di essere in un'altra età, tanto che per un curioso effetto di disassamento le macchinette di cui si servono i personaggi sembrano auto d'epoca in una storia attuale, anziché normali mezzi di locomozione nel loro abituale contesto.
Se fosse questo soltanto, non sarebbe gran male. I problemi veri però sono altri. Il più grave ha a che fare con la credibilità dei personaggi. Non so, ma ogni volta che in un film italiano viene presentato un artista, uno scrittore, un intellettuale, la sua figura è inverosimile, confusa o addirittura grottesca. Ultimi solo per cronologia quelli - sempre romani - di Sorrentino ne La grande bellezza. In Luchetti, passi per l'artista protagonista, la cui scarsa credibilità risiede principalmente nell'interpretazione datane da un Kim Rossi Stuart che non è nei suoi panni; ma il critico d'arte no, quello proprio non si può tollerare! E qui emerge la pochezza del copione, soprattutto nel momento in cui i nodi si dichiarano sciolti e la vicenda ha un pre-lieto fine consolatorio: il critico onnipotente, dai cui velenosi o benevoli articoli dipende la fortuna del nostro, dopo averlo stroncato pochi giorni prima ed essersi preso anche un bel ceffone, adesso magnanimamente gli dichiara "questa volta m'hai convinto!"
E poi c'è la questione sessuale. La mamma si fa circuire da una gallerista straniera femminista e lesbica - ma sì, pare che per Luchetti le due cose siano (o almeno fossero a quell'epoca) strettamente collegate. Non vorremo negare a Luchetti il diritto di farci vedere qualche bacio saffico, qualche effusione omosessuale. Per carità; basterebbe però che l'attrice che interpreta la straniera, che si chiama Martina Gedek, fosse un po' meno convenzionale. Basterebbe che la questione fosse vista in un'ottica meno scontata, diciamolo, meno banale.
Ed infine la prospettiva, quella della vicenda vista dal ragazzino. Se così davvero fosse, come Luchetti vorrebbe, molte cose non dovrebbero esserci, ed altre forse dovrebbero essere diverse. Il fatto è che la prospettiva adolescenziale si utilizza finché fa comodo, ma poi Luchetti tracima, esonda, e non per abbondanza di materiale ma anzi per non farci perdere nulla degli ingredienti che fanno andare al cinema la gente.
Peccato: dopo Mio fratello è figlio unico ci saremmo aspettati di meglio!

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